Donde està mi sendero

Mi misi in cammino che era una giornata di metà aprile. Non era presto, il sole era già alto e l’aria tiepida. Le eriche stavano fiorendo e spollinavano il loro pulviscolo bianco nella direzione che decideva il vento. Imboccai la Valicarda verso nord, all’altezza delle ultime case dove la via diventa sterrata. Il terreno era arido e sabbioso dopo due settimane che non pioveva. Tracce recenti di ferri e sterco di cavallo, ai lati la vegetazione era esplosa, e dalla sua deflagrazione macchie di verde avevano riempito i prati e le vigne, i ciglioni e le olivete. Cespugli di lavanda, violette selvatiche, capiciri, gialli fiori di tarassaco che tra poco si sarebbero trasformati in soffioni, per l’elicriso era ancora presto ma già sprigionava il suo odore pungente stimolato dai raggi di un sole generoso. Dopo un paio di tornanti in salita, laddove il bosco prende il sopravvento sulla campagna e i lecci iniziavano a puntellarsi di germogli, ci sono le prime tracce di un muretto in calce di pietra, arenaria probabilmente. Sono i resti dell’antica recinzione del Barco Reale, la riserva di caccia della famiglia De’ Medici, propaggine della residenza adibita alla villeggiatura di Artimino (la famosa villa dei cento camini), dove Cosimo riceveva i suoi ospiti più gaudenti e li sollazzava con battute e brindisi. Costruito nel diciassettesimo secolo, il muro si dispiegava per cinquantadue chilometri (per paragone, il ben più modesto divisorio di Berlino si fermava a quarantatre), da Poggio alla Malva lungo tutto il crinale occidentale del Montalbano fino a Vitolini, quindi completava il suo perimetro lambendo l’abitato di Carmignano per chiudersi poi di fronte al masso della Golfolina. Ad ogni entrata prestavano servizio delle guardie, i birri (progenitori degli attuali ai quali è stata aggiunta una “s”, forse perché nel tempo si sono fatti più viscidi): erano lì per impedire il bracconaggio, ossia che qualche povero diavolo, spinto dalla fame verso quelle terre scoscese, non si procurasse gratuitamente la selvaggina che sostituisse per un giorno la sua dieta di legumi. A quel tempo non era raro che il signore di turno si accaparrasse i boschi migliori per sopperire alla noia della lussuria con la violenza della vista di un po’ di sangue selvatico, e, fattore non secondario, per lo sfruttamento del legname. A vederle ora, meste rovine abbracciate dai roveti, alla cui base scuriva il mirto ormai spoglio di bacche, sembravano delle pietraie che un gruppo di ragazzetti scalmanati aveva ammassato lì per qualche infantile prova di eroismo. In realtà quella cinta una volta misurava due metri in altezza, ed era uno dei primi esempi tangibili dell’arroganza signorile e della prevaricazione di una cerchia di presuntuosi tiranni sul resto degli abitanti di quelle terre. Immagino l’indecifrabile soddisfazione dei caprai che per primi si sono ritrovati a pisciare contro quel perimetro che li escludeva dal beneficio di qualcosa che era stato di loro godimento da millenni: siamo lontani dal definirla “coscienza di classe”, ma per quanto non sia in grado di dimostrarlo, sono quasi sicuro che esistesse un rudimentale, viscerale, quanto legittimo, odio nei confronti di chi si arrogava il diritto divino e unico di sfruttamento sul quel suolo.

Superato il primo sabbioso falsopiano e la vigna abbandonata, l’ascesa rivela per la prima volta la sua destinazione: il Montalbano si staglia molle e rotondo contro il cielo azzurro e spoglio di nuvole. Il suo profilo non ha niente di imponente o solenne, segue discreto il resto dell’orizzonte, lo sbalzo planimetrico è solo un sussulto, una risata geologica scaturita dall’ascolto di un aneddoto di qualche viandante guascone. Decisi che all’andata avrei preso la via più corta, aggirando la vetta e imboccando un sentiero sulla destra che porta a S. Martino in Campo, per proseguire attraverso la valle sotto Verghereto. Me la sarei presa più comoda al ritorno, quando avrei avuto più chiara la distanza della mia destinazione. Non era la prima volta che il buio mi sorprendeva lungo il cammino e non era stato molto piacevole, anche se in fin dei conti non è per niente pericoloso il bosco di notte: qualche cinghiale che grufola sotto una querce, daini che zompettano discreti lungo i declivi silenziosi, ogni tanto un barbagianni si lamenta da lontano, e poco altro. Mi sono ritrovato in contesti più temibili in una qualunque metropoli europea, e per di più di giorno.

Fatti pochi passi sulla nuova strada una coppia di colombi si alza in volo, tubando seccata. Fin da subito il selciato si fa più ghiaioso e ripido. Il versante occidentale del monte è più impervio, rispetto all’altro che guarda verso il fiume: quest’ultimo è più regolare nelle pendenze e di conseguenza più curato e coltivato, tanto da essersi meritato l’appellativo di “campagna-giardino”. Sul fianco pratese e pistoiese invece sono i boschi di lecci a formare la vegetazione, intervallati da ammassi di roccia friabile. L’ambiente risulta più scuro e selvaggio, durante l’inverno si formano acquitrini che resistono fino alla bella stagione. Il sentiero si conclude di fianco ad una fattoria dove si allevano pecore e asini ragusani, una bizzarra variante più simile ai lama, o agli alpaca, che ai comuni ciuchi. Da qui si prende a ritroso la strada d’ingresso alla colonica e si risale verso il piccolo abitato di S. Martino. Nella valle sottostante si intravede un laghetto artificiale dove c’è una riserva di caccia al fagiano. Ormai questi animali, nutriti abbondantemente di granaglie, sono diventati quasi domestici, e ciò gli ha fatto perdere un po’ di appeal agli occhi dei puristi dell’attività, attratti dai più impegnativi cinghiali o dagli uccelli di piccolo taglio. Da ottobre a gennaio, orde di paramilitari in tenuta mimetica infestano questi boschi lasciando dietro di se la scia del loro infausto passaggio, centinaia di bossoli di cartucce e avanzi dei loro bivacchi improvvisati, alla faccia dell’autorappresentazione che li vorrebbe i soli “amanti della natura”.

Raggiunta la strada asfaltata appare sulla sinistra un austero edificio di foggia antica: è l’abbazia benedettina, il cui primo impianto è fatto risalire al decimo secolo. Parzialmente distrutta nel corso del 1400 dopo l’abbandono dei monaci, è stata ricostruita il secolo successivo e affrescata da un anonimo pittore fiorentino. Sono molti i restauri succedutisi nel tempo (un iscrizione testimonia uno di questi interventi datato 1876), adesso è la chiesa della comunità. Di fonte all’entrata ci sono quattro lapidi di altrettanti sammartinesi morti tra l’agosto e il settembre del 1944, uccisi da mine e granate. In quel periodo l’offensiva partigiana, aiutata dalla pressione a sud dell’esercito alleato, stava liberando la Toscana centrale e scacciando i tedeschi di là dalla linea Gotica. Quest’ultimi, abbandonando il Montalbano e riparando verso l’Appennino, si lasciarono andare a saccheggi e omicidi, minando le strade principali in un disperato atto di vile rappresaglia. Questi colli e queste valli hanno ospitato fin dall’armistizio del 1943 bande partigiane più o meno organizzate. Mio nonno raccontava spesso le vicissitudini di un suo coetaneo e vicino di casa, Sergio “di Bicchìo”, catturato dai fascisti durante l’occupazione nei pressi di Vitolini (“la Vandea dell’empolese”, come la chiamò a suo tempo Libertario Guerrini). Fu condotto a Firenze e ripetutamente torturato nella famigerata Villa Triste, dove agiva il boia Mario Carità (una vita in camicia nera: squadrista della prima ora, truffatore, giocatore d’azzardo, cocainomane, mentalmente disturbato fin dall’infanzia; perfino i camerati criticavano i metodi sadici della sua banda). Una volta mio nonno accompagnò il padre di Sergio a trovarlo: era nero in volto, pieno di ecchimosi per le botte ricevute. Non voleva farsi vedere in quelle condizioni dall’anziano babbo, quindi disse di non poter avvicinarsi perché i fascisti non volevano. Quando il padre gli chiese come mai aveva la faccia così scura, il figlio rispose che lo facevano lavorare fuori e aveva preso il sole. Fu liberato in cambio della promessa di unirsi all’esercito repubblichino, ma al primo permesso ottenuto tornò verso casa e si diede di nuovo alla macchia.

Fatto un centinaio di metri dall’abbazia, iniziano i sentieri marchiati dalle strisce biancorosse del CAI di Prato. Sono vie larghe e pulite, intersecate ogni tanto da tortuosi ruscelli che creano piccole cascate di acqua zampillante. Maestose poiane disegnano cerchi concentrici in alto nell’aria, planando velocemente in cerca di una preda. I contadini assicurano che esse vengono dalle alpi Apuane, costrette quotidianamente a emigrare per la scarsità di cibo. Dopo un paio di chilometri i segnali indicano una svolta verso sinistra, lungo uno scosceso viottolo di pietre instabili. Questo tratto è breve ma scivoloso, si rischia di cadere se non si guarda dove si mettono i piedi. Terminata la pendenza, si raggiunge una piana sulla quale sorge la fattoria delle Ginestre, maniero granducale tutt’oggi attivo, di cui fa parte l’oratorio di S. Francesco, costruito nel 1707, anch’esso dai Medici. Su un lato della chiesa c’è un’iscrizione in volgare, che ci informa dell’inizio dei lavori e dei vari ringraziamenti e raccomandazioni a santi e papi affinché la struttura regga e le volte non caschino in testa ai fedeli.

Potrei vagare per giorni intorno a questi alberi, indagare nei recessi più insospettabili i segreti delle radici affiorate, leggere come un oracolo le venature delle effimere foglie e annusare l’acre fragranza delle fiere orgogliose. In nessun caso comunque riuscirei ad impormi la sacralità pagana della quale credo di aver bisogno. Il crepuscolo arrivò all’improvviso sotto le chiome verdi, proprio laddove pensavo di essere al sicuro. Filtrava una luce obliqua e la brezza formava ombre instabili che giocavano con lo spazio. Impreparato, mi colse un pensiero: qual è davvero il mio sentiero, dove mi porterà? Per adesso ho affrontato solo vicoli ciechi, strade mentali accidentate e umide, scontrosi rimpianti e lamentevoli desideri. C’è stato un errore d’approccio, una ragionata indolenza verso la vita e l’opportunità di godersela. In questa maniera si perde l’orientamento, si vaga nei luoghi soliti senza riconoscerli, non si riesce a notare i segnali che ci potrebbero ricondurre verso un panorama familiare. Non si ascoltano le esortazioni, si pensa solo a compiangersi. La solitudine si trasforma in dannazione e diventa sempre più complicato redimere la propria delusione, non esiste formula assolutoria per i condannati volontari.

Remigio Tristoni

Redazione CdC
25 giugno 2015