Interviste
Luca: "Rubare l’erba" racconta la vita dei pastori del paese dei suoi nonni. I pastori sono camminatori per forza. Noi invece siamo camminatori per passione. Ma mi sono sentito vicino a quei pastori, che a differenza dei contadini, proprio perché erano nomadi erranti, esprimevano un senso di libertà e di sovversione, in quanto "diversi", cosa ne pensa?
Marco Aime: Credo che occorra fare attenzione a non cadere in facili suggestioni retoriche e magari a proiettare su modelli di vita del passato delle nostalgie che appartengono a più a noi che a loro. Dalle conversazioni con i pastori emerge chiaramente che loro facevano i nomadi per necessità e che non vedevano in questa pratica un intento di libertà, né di trasgressione. Il nomadismo non è una scelta, ma una necessità e le parole di Toni "Quello che ha inventato il mestiere del pastore bisognava ammazzarlo", rendono l’idea di quanto nella percezione dei pastori il camminare fosse un’esigenza imposta dalla vita e non o almeno quasi mai un piacere.
Luca: Lei è soprattutto viaggiatore. Che rapporto ha con il camminare? Non trova che il camminare sia il miglior modo di viaggiare per vivere il viaggio senza fretta, riappropriandosi del tempo?
Marco Aime: Amo camminare, ovunque. Credo che camminare stimoli il pensiero e renda attiva la mente, così come l’andare in bici. La lentezza, inoltre, rende possibile il fondersi e il confondersi maggiormente con l’ambiante che si attraversa. Vale forse la pena ricordare le parole di Cesare Pavese ne La bella estate: "A piedi" avrei detto a Pieretto, "vai veramente in campagna, prendi i sentieri e costeggi le vigne, vedi tutto. C’è la stessa differenza che guardare un’acqua e saltarci dentro".
Luca: In un suo altro libro, "L’incontro mancato", che considero una pietra miliare della riflessione sul fare turismo in modo responsabile, lei critica il modo di viaggiare oggi in uso, un viaggiare frenetico - si viaggia per vedere il più possibile - dimenticandosi che per poter costruire relazioni interpersonali significative ci vogliono tempi vuoti, ci si deve fermare. Lei ha criticato anche le organizzazioni del turismo responsabile, dicendo che non si discostano molto in questo aspetto dal turismo di massa. Le organizzazioni del turismo responsabile però non hanno secondo me fatto passi avanti in tal senso...
Marco Aime: Sono abbastanza d’accordo, non c’è stata una vera rivoluzione del viaggiare, ma solo piccoli aggiustamenti e soprattutto non si è modificato il rapporto con il tempo. La dimensione tempo è fondamentale per l’incontro, quella su cui le agenzie di turismo responsabile pongono di più l’accento. L’incontro con le comunità locali viene però spesso descritto come un’opportunità riservata a pochi e con toni un po’ «parrocchiali», che portano a immaginare la riunione di un circolo di amici, dove si discute dei problemi degli uni o degli altri in piena convivialità e reciproco entusiasmo. In realtà, nella maggior parte dei casi il ruolo del turista è caratterizzato dalla contemplazione piuttosto che da un vero coinvolgimento: si osserva, ci si stupisce, si fotografa e spesso si discute su ciò che si è visto tra turisti stessi.
Per fare davvero conoscenza occorre tempo, molto, ma difficilmente se ne ha a disposizione abbastanza per rimanere in quel luogo a lungo. Senza contare che l’avvio di un rapporto interpersonale è solitamente un fatto individuale e spesso, invece, sono due gruppi a trovarsi uno di fronte all’altro. Le dichiarazioni e le promesse relative all’incontro con le popolazioni o le comunità finiscono per essere condizionate dalla brevità e dall’istituzionalizzazione di questo incontro, peraltro sempre mediato e collettivizzato. La promessa di «incontri» con le popolazioni locali risulta quindi falsata. Al massimo si tratterà di un soggiorno di uno o due giorni in un villaggio dove non si sarà «amici», come forse si desiderava essere, ma sempre stranieri. Pertanto le relazioni tra lui e i nativi si fanno sempre più impersonali e per entrambi gli individui diventano «tipi». Nasce allora la tendenza allo stereotipo e alla categorizzazione: locali e stranieri finiscono per trattarsi l’un l’altro sempre più come oggetti.
Luca: Come fare a compensare l’impatto del nostro viaggiare? Impatto sociale, economico, ambientale... Nel suo libro "L’incontro mancato" non c’è una risposta. Cosa pensa dell’idea secondo la quale il nostro viaggiare è responsabile, se noi quando torniamo utilizziamo le conoscenze e gli incontri fatti in viaggio per portare pace e fratellanza tra gli uomini? per esempio, se vado in paesi musulmani e torno raccontando in giro, con i mezzi che ho a disposizione, che ci sono tanti luoghi comuni da sfatare, che non è per niente vero quello che si dice in televisione, valorizzando gli aspetti positivi e le uguaglianze, in questo modo il mio contributo può essere in qualche modo una compensazione dei danni che ho arrecato col mio viaggiare? Vede altri modi di compensare?
Marco Aime: Credo che la migliore risposta sia la sincerità in ogni momento. Da quella necessaria per accettare ciò che si vede, anche se non coincide con il nostro immaginario a quella che ci vuole nel riportare ciò che si è visto. In molti casi, invece, si finisce per riconfermare stereotipi e luoghi comuni già consolidati.