Interviste
Siamo alla Fiera della piccola e media editoria, al Palazzo dei congressi dell’Eur, a Roma. In un salotto incontriamo Wu Ming 2, del collettivo Wu Ming il camminatore, l’amante della natura, colui che ha pubblicato il libro “Il sentiero degli dei” (Ediciclo, 2010), Wu Ming 2 che accompagnerà per la Compagnia dei Cammini un gruppetto di camminatori da Bologna a Firenze, a settembre, sulle tracce delle storie che ci ha raccontato nel suo libro e di altre storie e altri incontri che accadranno in cammino.
Come Wu Ming 2 ha iniziato a camminare e quanto è importante il camminare nella sua vita?
Ho iniziato molto presto, mio padre era amante della montagna per cui fin da molto piccolo mi portava per sentieri, per boschi, alla conquista di vette. E in qualche modo mi ha trasmesso l’amore per la montagna, per le sue regole, per le regole del camminare, una dimensione che ho subito percepito come fatta anche di rispetto, non soltanto per l’ambiente e la natura, ma anche per se stessi e le persone che vengono con te: come comportarsi quando uno non ce la fa, come comportarsi quando non ce la fai tu, il fatto che il camminare non deve diventare una sfida, oltre le tue possibilità. Questa era l’ottica di mio padre. poi sono stato Scout, e ho fatto ulteriori esperienze di vita all’aria aperta, cammini con zaino e tenda in spalla, dove ci si accampa quando si arriva, ed è diventato quello il tipo di viaggio a piedi che preferisco. Apprezzo molto il fatto che non ci sia un posto dove "devo" arrivare al termine della tappa, ma a seconda di come la tappa va, di cosa incontro e di cosa mi succede, pianterò la tenda prima o la pianterò dopo.
Per cui anche adesso, quando vado da solo, per quanto sia un peso non indifferente - anche perchè la mia tenda igloo è di vecchio tipo e quindi abbastanza pesante - mi porto dietro la tenda, se posso. Mi piace non dovermi porre il problema dell’arrivo.Poi, adesso che a mia volta ho dei bambini, cerco di trasmettere loro lo stesso piacere del camminare, andiamo a fare in estate giri a piedi in montagna, fin da molto piccoli ho cercato di farli andare con le loro gambe. Devo dire che il fatto di avere dei bimbi piccoli ha fatto diminuire la mia possibilità di fare cose più solitarie o di cammino con amici, per stare vicino alla famiglia...
Che esperienze di cammino hai condiviso con Enrico Brizzi?
Io ed Enrico abbiamo iniziato a camminare insieme quando avevamo sedici anni, con lo stile di non seguire sentieri precostituiti, non andare a fare le alte vie sulle Alpi, cioè lo stile che piaceva a mio padre, ma partire dalla propria città, darsi un obiettivo, studiare una cartina, trovare il proprio percorso su strade secondarie e sentieri. A me un aspetto che piace del camminare è anche il fatto di programmare il sentiero, studiarselo, trovarselo, fare i conti anche con l’esperienza del "perdersi senza perdersi", quando smarrisci il sentiero che avevi programmato e devi inventartene uno nuovo e questo penso faccia parte del bello dell’esperienza, il suo lato creativo.
Con Enrico facemmo la prima volta da Bologna all’Adriatico lungo la dorsale appenninica, poi un’altra volta tentammo di fare da Bologna all’altro mare, il Tirreno, per arrivare a Forte dei Marmi, ma in quel caso lì, con uno snobismo da amanti delle Alpi, avevamo pensato che sull’Appennino, ai primi di maggio, non avremmo trovato condizioni proibitive, e invece arrivammo al passo di Annibale, dalle parti della Val di Luce, tra il modenese e il reggiano, con la neve al ginocchio, con le tracce del sentiero che non si vedevano più, con la nebbia che scendeva, e quando abbiamo intravisto i pali di una seggiovia, abbiamo seguito quelli e siamo scesi a valle. Poi non avevamo più tempo per recuperare, riprendere magari da un punto più in basso, e siamo dovuti tornare a casa. Il che va benissimo, è quello che devi saper fare, renderti conto che non ci sono le condizioni che ti aspettavi, non sei attrezzato e forse non saresti nemmeno capace, anche con l’attrezzatura, e quindi lasci stare, lasci perdere.
E poi dopo avevamo coltivato il sogno del coast to coast, dal Tirreno all’Adriatico, ma entrambi abbiamo figliato e mentre lui ha trovato il modo di prendersi le 3 settimane necessarie, io non le ho mai trovate. Dopo lui l’ha fatto con altri, dall’Argentario al Conero, e ha cominciato a coltivare progetti di cammino più di larga scala, che non si confanno alla mia organizzazione familiare, e hanno un tipo di scala che a me tutto sommato interessa meno: mi interessa un tipo di cammino più profondo, in un percorso breve mi posso dedicare alla raccolta di informazioni, dettagli, storie, perché io ho bisogno di attraversare un territorio che so leggere, quindi prima devo imparare l’alfabeto.
È internet il tuo strumento principale per raccogliere informazioni?
Il mio strumento principale è internet, ma molto importante è la grande quantità di biblioteche della mia città, Bologna, dove si trova tanto, anche libri minori, di storia locale. Per esempio rispetto alla ferrovia Direttissima Bologna - Firenze e alle storie della sua costruzione, che ho raccontato nel libro "Il sentiero degli dei", un’epopea meravigliosa, soltanto a Bologna ho potuto trovare un libro dove gli alunni dell’Istituto tecnico di Castiglion dei Pepoli nel cinquantenario dell’apertura della Direttissima nel 1984 avevano intervistato i minatori che ci avevano lavorato, materiale preziosissimo che su internet non avrei trovato, che non è in nessuna libreria.
Ti vorrei chiedere qualcosa sull’impatto ambientale delle pale eoliche. Mi ha colpito molto come tu l’hai descritto. Pochi giorni fa una amica mi diceva che era sempre stata convinta della positività delle pale eoliche. e dopo aver letto il tuo libro ha cominciato ad avere dei dubbi. A me fa molto piacere perchè io sono uno di quelli per i quali il paesaggio è qualcosa di importante, rispetto agli ambientalisti che invece valorizzano solo l’aspetto scientifico, e dicono che se l’energia è pulita ben vengono le pale eoliche. Per me invece è una sofferenza, in questi giorni a Creta ci ho camminato in mezzo, e mi facevano paura, sembrava di essere in un film dell’orrore, queste pale altissime, oltre i limiti della nostra dimensione e comprensione.
È una problematica complessa. Si stanno sviluppando varie tecnologie per sfruttare l’energia del vento, e non è detto che la grande pala alta più di 100 metri sia l’unico modo per trasformare il vento in energia. Si dovrebbe tener conto, a seconda del paesaggio, di che tipo di eolico fare. Purtroppo per default si va verso la grande pala.
Seconda questione: nel luogo dove si vuol fare il "parco" eolico, c’è una quantità di vento tale da giustificare un ritorno per la comunità in termini di energia? Questo tipo di installazioni beneficia di incentivi, e questo è giusto, ma in Italia sono così alti che può essere conveniente per l’azienda installare il parco eolico anche laddove in termini di produzione di energia non c’è un reale ritorno per la collettività. E’ un guadagno solo per l’azienda, in termini di incentivi, e non per la collettività, in termini di energia prodotta. Per sapere se nel sito in cui si vuole costruire un "parco eolico" c’è abbastanza vento c’è bisogno di fare una campagna anemometrica. Queste campagne sono molto costose. Allora chi le fa? Le stesse ditte che poi fanno il progetto. Per esempio sul parco eolico che descrivo, quello sul Monte dei Cucchi, il progetto e la campagna anemometrica sono stati fatti dalla stessa ditta, la AGSM di Verona. E la Provincia di Bologna, sponsor dell’installazione, non ha gli strumenti per verificare con una sua campagna anemometrica indipendente se effettivamente lì c’è un vento tale da giustificare l’installazione di un parco eolico. E allora mi pare che abbiamo abbandonato completamente quella che dovrebbe essere la funzione della politica nei confronti della tecnica. Se la politica non si pone l’obiettivo di controllare la tecnica, siamo alla deregulation, e sono le aziende stesse a decidere se va bene o no fare una certa cosa.
C’è il problema che c’è sempre nel nostro paese, di chi controlla. E che chi controlla sia un soggetto terzo, e non un soggetto cointeressato o addirittura lo stesso soggetto che va a fare il progetto.
Poi c’è il discorso di dove le fai. Ci sono contesti paesaggistici dove l’installazione delle pale eoliche può avere un impatto tutto sommato relativo. Andando in treno da Parigi verso il Sud della Francia ci vedono tantissime pale. E’ un contesto piatto, con dei silos, tralicci dell’elettricità, eccetera: per l’avifauna non sarà un toccasana, ma per l’impatto paesaggistico non sembra che quelle pale vadano a strappare pagine di paesaggio. Le pale eoliche non sono nemmeno brutte, di per sè: in un paesaggio piatto e monotono creano movimento.
Ma sopra un crinale a 1000 metri di altezza, prima di piantare delle pale che modificano il profilo di una valle, ci si dovrebbe chiedere quel profilo che significato ha per gli abitanti di quella valle. Ci dovrebbe essere una fase di dialogo con la popolazione, questo è banale, ma non viene fatto. Gli abitanti di San Benedetto Val di Sambro hanno scoperto che si stava facendo un parco eolico perché gli sono arrivate le lettere di esproprio dei terreni. Solo a quel punto, con la gente già arrabbiata, la ditta si è posta il problema di mediare con la popolazione.
Sono solo gli abitanti del posto che ti possono dire come verrà percepita la cicatrice che tu stai per fare sul paesaggio. La stessa cicatrice è diverso se io ce l’ho sulla schiena o sulla guancia, è diverso come la si percepisce e il tipo di impatto che dà alla mia vita. Se ce l’ho sulla faccia, sono "uno con una cicatrice". Se ce l’ho sulla schiena, non sono uno con una cicatrice. Tu devi chiederlo alla popolazione locale: "Quella lì è la faccia della vostra valle, o è la schiena?": E invece questo viene percepito come la cosidetta "sindrome Nimby" (Not in My BackYard): fai le cose ma non nel mio cortile. Chi altri se non le persone che abitano in quel cortile possono interpretare i simboli del paesaggio e dirti se la cosa che tu stai andando a fare impatta sul territorio in un certo modo oppure no? Mi sembra una dimostrazione di narcisismo antropocentrico il fatto che se una ditta di Verona venisse a proporre, dopo uno studio anemometrico, di piantare una pala eolica in cima alla torre Asinelli, probabilmente la rimanderemmo a Verona a calci nel culo, perchèéla torre Asinelli è il simbolo della città e non la tocchi. Laddove invece un crinale è il simbolo di una valle, quello invece non fa problema, sbanchiamo un bosco intero e facciamo il parco eolico.
Tra l’altro va anche detto che nel prontuario, scaricabile anche in rete, fatto dalla Regione Emilia Romagna sulla questione dell’impatto paesaggistico degli impianti eolici, sui criteri da tenere in conto prima di progettare, tutto questo c’è, a livello teorico. Però è un documento solo teorico, che non ha riscontro a livello di legislazione, mentre quando il progetto viene fatto è la Provincia ad avere la competenza.
Chiamare poi queste centrali "parco" è un po’ come quando uno parla di "guerra umanitaria". Lo si vuole chiamare "parco" come per dire che è una bella cosa, che a suo modo "protegge" l’ambiente.
Hai in programma qualche altra camminata?
Sono andato a presentare il libro in Val di Susa e ho incontrato il variegatissimo movimento No Tav, e da allora sto ragionando sull’idea di inseguire il treno ad alta velocità fino a Bardonecchia, in varie tappe.