Perdersi per evolversi, la via invisibile

Intervista a Franco Michieli (a cura di Luigi Nacci)

Franco Michieli, geografo ed esploratore, è tra gli italiani più esperti nel campo delle grandi traversate a piedi di catene montuose e terre selvagge. Propone ai soci della Compagnia dei Cammini dei trekking innovativi e sperimentali, i cui partecipanti impareranno ad orientarsi senza strumenti tecnologici o cartine, utilizzando invece le facoltà umane per leggere il territorio.

Questa intervista ci permetterà di conoscere meglio Franco e la sua filosofia.

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Luigi Nacci
25 April 2012

Luigi Nacci: Franco Michieli: geografo, esploratore, alpinista, camminatore, giornalista, regista. Chi sei?

Franco Michieli: Direi un po’ tutte queste cose assieme, più altre considerato che mi dedico anche alla famiglia, senza che nessuna sia così determinante da diventare una vera definizione, o peggio un’etichetta. Presentarmi ad esempio come geografo è certamente utile per far capire la dimensione culturale attraverso cui posso vedere il mondo, ma è meglio non cristallizzarla. Lasciare nell’indefinito ciò che si è e far parlare piuttosto degli atteggiamenti, degli approcci verso la realtà, aiuta a trasmettere i contenuti autentici anziché i soli “involucri” delle attività che si svolgono.

Noi esseri umani tendiamo a infatuarci dei contenitori e delle loro colorate etichette, senza capire che quello che sta dentro è tutt’altro, e che si potrebbe viverlo anche in ambiti molto differenti fra loro. Per esempio, molti sembrano appassionarsi più a degli oggetti – come gli sci, o una bicicletta, o certe piccozze tecniche, o un certo tipo di sentieri – che non al fatto di essere semplicemente in movimento nella natura con un certo spirito, senza preoccuparsi di quale “specialità” si sta praticando. Il grande stimolo che si riceve esplorando un territorio senza mappa insegna anche a non mappare troppo se stessi: meglio ammettere che non si sa bene che cosa si è, e che perciò vale la pena di continuare a sperimentarsi per vedere cosa si diventa.

Luigi Nacci: A soli 19 anni hai fatto la traversata delle Alpi, da Ventimiglia a Trieste, 2.000 km in 81 giorni, senza tenda. È stato il tuo primo lungo cammino? Che cosa ti ha spinto a partire? Come sei cambiato in quel viaggio?

Franco Michieli: Da ragazzo avevo già provato qualche “alta via” e a 18 anni la traversata della Corsica, ma certamente le Alpi sono state il primo cammino di lunga durata. La prospettiva di permanere quasi tre mesi in montagna è stato il primo stimolo che mi ha spinto a scegliere questa esperienza: desideravo soprattutto scoprire cosa sarebbe successo vivendo ininterrottamente da viandante delle montagne, restando nella natura giorno e notte spostandomi sempre verso nuovi orizzonti, senza poter intravedere né il punto di partenza né quello di arrivo, se non al primo e all’ultimo momento. Aspiravo a ritrovarmi in mezzo a una sorta di “infinito di montagne”, disteso a perdita d’occhio sia dietro che davanti a me, in modo che fosse naturale pensare semplicemente al presente, all’essere là, senza essere tentato da un traguardo, da un “desiderio di concludere”, come capita inevitabilmente se si scala una singola cima o si fa una gita in giornata e vengono in mente le cose da fare al rientro. Ero alla fine della quinta liceo, subito dopo la maturità, e mi appassionavano molte domande sul senso della natura e su come potrebbe essere il nostro rapporto con lei. Lo studio di Giacomo Leopardi, per esempio, mi aveva molto coinvolto, e il fatto di vivere a Milano mi spingeva a partire per indagare quei temi in situazioni ben più selvagge.

Lo scopo non era riuscire a fare la traversata delle Alpi, ma viverci dentro adattandomi, trovandomi bene su tutti i terreni, dalle valli ai boschi alle grandi cime ghiacciate. Uno degli obiettivi più importanti per me era provare a farlo bivaccando, dormendo all’aperto col solo saccopiuma, trovando se necessario dei ripari naturali. Quelle notti sotto stelle e nuvole mi hanno dato tantissimo; gran parte della serenità che le montagne mi hanno trasmesso viene dalla scoperta di quanta accoglienza la notte alpina senza ripari ci sappia dare. Inoltre, aver sperimentato come la via sconosciuta possa prendere forma davanti ai nostri passi nella nebbia o nell’oscurità ha cambiato le mie prospettive. Dopo la traversata ho perso parecchio individualismo, ho spostato molta attenzione dall’io a ciò che c’è fuori, intorno, con più voglia di osservare e di ascoltare. Ho considerato un errore sempre più grave l’antropocentrismo, una fissazione che solo l’ignoranza di ciò che è altro da noi può giustificare.

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