Gli incontri della mia Via Romea

Siamo partiti da Viterbo una bellissima e calda giornata autunnale di metà novembre, il ritrovo era incerto, tra Piazza del Plebiscito e il Palazzo dei Papi, metà gruppo era di qua, metà di là, segno di una integrazione forse difficile? Poi ci siamo riuniti e contati, eravamo in 20 a partire verso Roma! La prima giornata di cammino è breve, si parte dopo le 13 per arrivare in circa due ore a San Martino al Cimino, e l’incontro del giorno è con una donna del passato, donna Olimpia. Al Palazzo Doria Pamphilj infatti, chiediamo di poter visitare le stanze rinascimentali, e il responsabile dell’Azienda turistica locale ci racconta la vita di donna Olimpia, che da ragazzina per non andare in convento accusò il suo precettore di molestie sessuali, causandone la rovina, poi si sposò due volte e divenne la cognata di Papa Innocenzo X, fu chiamata la Papessa per i poteri che aveva, e per farsi perdonare fece nominare vescovo il precettore che aveva accusato ingiustamente, poi fece costruire San Martino coinvolgendo i più importanti architetti del Seicento, fino alla sua morte di peste proprio qui nel 1657.

Poi, dopo aver ascoltato questa storia di passione e potere, tutti in albergo e a cena da Saverio, un’ottima trattoria in cui le zuppe la fanno da padrone. La mia, di ceci e castagne, è fantastica! Il secondo giorno il cammino si fa serio. Sono 25 chilometri, non possiamo fermarci troppo a divagare. Prima si cammina sopra il lago di Vico, in una faggeta che dà il meglio di sé con i suoi colori autunnali, poi si cammina tra noccioleti, e ogni tanto una deviazione per raccogliere qualche “nocchia” me la concedo, così ho le tasche piene mentre cammino, e ogni tanto mi fermo a romperne qualcuna con un sasso.

L’ora di pranzo è passata da un pezzo, ma non ci decidiamo a fermarci per mangiare un boccone. Qualcuno è rimasto senz’acqua, pensava che lungo il percorso ci fossero tante fontanelle, strana idea... Allora entro in un cancello chiuso, ho visto che nella fattoria ci sono auto parcheggiate, altri del gruppo mi seguono. I contadini stanno mangiando, e ai nostri richiami subito non rispondono. I cani invece abbaiano. Poi sono costretti a uscire, e accendono per noi il motore che pompa acqua dal pozzo. Mentre riempiamo le borracce uno dei due ci racconta che lavorava all’Enea di Casaccia, il centro di ricerca sulle energie alternative e nucleari, poi ha fatto due scelte: è andato in pensione e ora fa il contadino. Rifletto che ha fatto la cosa giusta due volte!

Il sentiero prosegue e si entra nella necropoli etrusca di San Giulano, tra vie tagliate nel tufo e tombe di tutti i tipi, tra cui la tomba sulla cui parete laterale è impresso il bassorilievo di un cervo che viene azzannato da un lupo. E’ già metà pomeriggio e il buio si avvicina. E’ il mio turno (siamo due guide, io e Luca Nucci), devo portare il gruppo a Barbarano Romano per il Fosso di Neme, prima che sia buio. Ormai il percorso è quasi scomparso nella vegetazione, e si deve guadare il torrente varie volte, senza capire bene se il sentiero continua di qua o di là. Accelero. Ma una parte del gruppo fa fatica a tenere il ritmo dei primi, quindi sono costretto a continue soste per aspettare tutti. Sento che la situazione psicologica può degenerare, se non arriviamo prima del buio. Il buio fa uno strano effetto nell’uomo, scatena paure ataviche. Anche se ci sono due guide, anche se siamo a pochi minuti dalla “civiltà” dei lampioni e dell’asfalto, il buio fa paura, e non è notte fonda, sono solo le cinque di pomeriggio...

Arriviamo giusto in tempo, senza dover accendere le frontali, entrando a Barbarano dalla Porta Canale, dal buio del fosso al rassicurante centro storico medievale in pochi secondi. E nel gruppo scoppia la gioia: “Siamo salvi!”.

Il terzo giorno di cammino le previsioni sono le stesse: 25 chilomentri di cammino e arrivo probabile col buio. Si parte allegri, e fino a Civitella Cese è tutto un chiacchierare. Verso Civitella Carlo mi dice “Ho proprio voglia di un uovo crudo, come si faceva una volta”. Carlo è un romano con i capelli bianchi, un uomo gentile e sempre allegro, ha saputo invecchiare con spirito giovane. Poco dopo, nel piccolo centro di Civitella, chiede a una donna seduta davanti alla sua porta: “Non sa dirmi dove posso trovare un uovo di gallina fresco?”. La donna prima lo guarda stupita, poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, chiama ad alta voce “Mariaaa, Mariaaa!”. Da una porta vicina si sente la voce di Maria “Che c’è?”, “C’è un signore che vorrebbe un uovo, ce l’hai?”. Maria è incerta, rientra, ma eccola uscire con un uovo delle sue galline, Carlo lo prende, e con un gesto rituale se lo beve all’istante. Poi cerca di pagare alla signora 40 centesimi, ma Maria non ne vuole sapere. Carlo insiste, e le dice “Mi dia un altro uovo, per favore. E accetti per due uova 40 centesimi”. Maria cede, porta un altro uovo e prende le monetine. Carlo prende il secondo uovo, si avvia lungo la strada e regala l’uovo che ha in mano a una vecchietta tutta vestita di nero poco più in là.

Riprendiamo il cammino, anche oggi è una giornata mite, si cammina in maglietta anche se è fine novembre, il sole è così caldo che c’è chi soffre ancora la sete... Ma c’erano le fontanelle in paese, perché non vi siete attrezzati? Boh...

Ora sono boschi, roverelle, poi prati, mucche al pascolo, maremmane con le corna lunghe. Dopo pranzo guida Luca Nucci, e ci porta dentro a una proprietà molto estesa, dove stanno costruendo un agriturismo, prati con mucche maremmane bellissime, più belle delle altre, fiere, corrono come animali selvatici, su questi prati verdi verdi che contrastano con le foglie gialle, rosse, marroni... Il temuto guado non c’è, l’acqua è bassa. Dopo il guado arriviamo a Monterano, città fantasma, con la fontana del Bernini in mezzo a un prato e la chiesa cinquecentesca in rovina, un enorme fico è cresciuto all’interno della navata, e dalle absidi crollate si vede un fantastico tramonto... momento magico in cui stiamo tutti fermi, ma che poco dopo paghiamo, perché gli ultimi due chilomentri sono quasi al buio, tutti corrono avanti come se il buio fosse sinonimo di morte, e siamo su asfalto, e siamo praticamente dentro al paese, ma lo stesso il buio di nuovo scompiglia tutto. All’ostello ben riscaldato ci sentiamo subito a casa, e ci buttiamo su birra e patatine per un aperitivo ristoratore.

Quarto giorno, stesso programma: 25 km e arrivo col buio. Da Canale Monterano entriamo nel bosco di Manziana, entriamo sotto un recinto che siamo costretti a passare strisciando per terra. Qualcuno protesta, non piace a tutti passare i recinti. Qualcun’altro invece è divertito, ama queste piccole avventure, i guadi, gli scavalcamenti di recinti, i passaggi azzardati nei fossi e nelle fratte, i sottopassi della ferrovia.

Il bosco, querce, nespoli, è quasi in piano e rasserena tutti. Anche le fontane sono occasione di pausa. Poi si esce dal bosco, e dopo la sosta al supermercato, eccoci di nuovo a superar cancelli per arrivare agli archi dell’acquedotto cinquecentesco, e alla sosta in un magnifico castagneto. Di nuovo in discesa, bel sentiero di fianco a un fosso fino alla strada che costeggia il lago di Bracciano. Arrivati al lago, sulle panchine, c’è chi vorrebbe fermarsi seduto a guardare le anatre e mangiarsi un gelato, ma il buio avanza e il buio, si sa, ormai è il nostro spauracchio!

Proviamo a camminare sul filo del bagnasciuga, anche se il procedere è più lento. Ma non piace, perché le acque ributtano sempre ciò che l’uomo butta, e quindi le coste sono sporche di rifiuti. Dopo qualche chilometro, ognuno prosegue per conto suo, e rimaniamo in sei o sette. Ritrovato l’asfalto, tutti a testa bassa a macinar chilometri verso Anguillara Sabazia. A un piccolo spiazzo, come per miracolo, ci ritroviamo tutti, o quasi. Luca, l’altra guida, ci offre i suoi fantastici biscotti al cioccolato, e via di nuovo a testa bassa sull’asfalto. Io, con un gruppetto oso e mi butto verso il lago, trovo una stradina più piacevole che ci porta a due chilomentri dal paese, quando arriva il buio, e qui ritroviamo gli altri che arrivano sulla strada principale, frontalini accesi, con Marco che urla perché vuol farsi sentire dalle auto. Improbabile!

Carlo ci aveva lasciato a metà tappa, aveva una vescica enorme sotto il piede, poverino. Lo ritroveremo in Piazza San Pietro. Giulio non sta bene da un paio di giorni, anche lui decide di tornare a casa, e rimaniamo in 18.

Il quinto giorno sembra nuvoloso, forse è l’umidità del lago, qualcuno dice, e infatti quando siamo a qualche chilometro, su grandi campi coltivati a broccoletti, tra tralicci dell’alta tensione, torna il sole. Attraversiamo la ferrovia, qualche proprietà privata, chiediamo il permesso in un’azienda agricola e il fattore ci risponde “Andate a Roma? Bravi, passate pure, ci sono un paio di recinti da passare, ma ormai sono semi-distrutti”. Infatti il primo è aperto, il secondo lo saltiamo. Ed entriamo nel cortile di un’altra fattoria, mentre due donne stanno giocando con una bambina bionda. Le rassicuro “Non vi spaventate, siamo solo pellegrini, andiamo a Roma e siamo in 18, ma passiamo in un attimo!”. Loro ridono.

Dopo un altro campo, apriamo un paio di cancelli e facciamo un altro incontro che mi colpisce: a passare nelle proprietà private ci si aspetta sempre di essere rimproverati. Ma stavolta finiamo dritti dritti in una pista da trotto, dietro a un’azienda agricola dove probabilmente addestrano cavalli da corsa. E sulla pista sta correndo un cavallo, con un giovane uomo nel sulky. L’uomo ci guarda, mentre noi attraversiamo la pista, ma prosegue con i suoi giri, incitando il cavallo col frustino. Ha un buffo cappello di feltro, sembra un elfo, il tempo che noi attraversiamo la pista per il lungo lui ci passa accanto 4-5 volte. Lo guardo meglio, sembra slavo o forse più lontano ancora, anche il cappello da elfo non è un cappello italico, chissà come ha imparato ad addestrare cavalli per il trotto, gliel’avranno insegnato qui, in azienda, o già lo faceva al suo paese? All’ennesimo passaggio, mentre il cavallo si fa distrarre dalla nostra presenza e rompe il passo, lui non si scompone, e senza rallentare ci fa un gesto categorico ma molto gentile, indicandoci l’uscita, che io già conoscevo, un piccolo passaggio tra i rovi di fianco a una cabina elettrica.

Ed eccoci a Galeria, altro paese fantasma, già distrutto dai saraceni nel IX secolo, e definitivamente abbandonato a fine Settecento. Tra le rovine, ormai ricoperte dalla vegetazione, un mulino, un ponte medievale, un castello, un campanile, alcune case, l’incontro più strano: soldati? Maschere sul viso, mitra in mano, tuta mimetica, non sono soldati, stanno giocando alla guerra... La prima reazione è di rabbia: arriviamo in un posto così carico di suggestioni, e voi ci fate paura e ci disturbate, andatevene! Si tolgono le maschere, sono poco più che bambini, e io che credevo fossero adulti! Pino gli chiede se i proiettili fanno male, loro dicono “Si, un po’, sono di ceramica”. Io guardo perplesso Pino, che sembra felice di questo incontro, pensando “Ma perché dai confidenza a questi guerrafondai?”.

Pino allora mi spiega, da psichiatra che si è sempre occupato di disagio giovanile: “Guarda che ti sbagli, se si gioca alla guerra da bambini e da adolescenti, da grandi si diventa pacifisti. Io lo trovo sano, come è sano per i bambini capire il pericolo, il disagio nasce nei ragazzi che sono cresciuti protetti dal pericolo, nella bambagia!”

Incasso il colpo e ammetto che ha ragione.

A Santa Maria di Galeria c’è un borghetto agricolo, costruito nel Seicento, per accogliere i contadini e le loro famiglie, quasi fossero una comune. C’è anche una chiesa, con affreschi del Quattrocento, mi colpisce la musica sacra e il dipinto di destra, con un grande asino che trasporta l’icona della Madonna sul basto.

Mentre io sono assorto in meditazione in chiesa, Marco e i goderecci del gruppo cercano di farsi dare un caffè dalla trattoria che sta nella piazzetta del borgo, ma il buon Marco, che si presenta con i suoi capelli lunghi e spettinati, fare dinoccolato al limite del traballante, zaino sulle spalle, viene scambiato (giustamente?) per un fricchettone e viene allontanato con le parole “Nooo...neeee, il caffè non te lo fo!”.

E siamo alla Storta, dalle suore Poverelle, uno degli ostelli dei pellegrini francigeni. Bella accoglienza, struttura semplice ma ci si sente a casa. Anche se le suore ci dividono in modo impari: i 12 uomini in uno stanzone tutti insieme, le 6 donne in due stanze, tre di qua, tre di là!

Ultimo giorno: si corre verso San Pietro, che c’è chi ha già la testa sul treno del ritorno, e c’è chi ha già la testa a casa... Ma non è giusto, l’entrata in Roma è il momento topico del viaggio, perché svilirlo così? C’è allora chi rallenta, e chi accelera, il gruppo sembra una fisarmonica. L’Insugherata è un parco dentro Roma, con le pecore che scappano al nostro arrivo. E dopo l’assalto al bar, eccoci a Monte Mario, ultimo angolo di verde, con il famoso affaccio sul cupolone, e anche oggi c’è il sole, una settimana di sole, incredibile... E qui eccoci come ciclisti in volata, in fila indiana, giù per la Trionfale, a succhiar le ruote di quello davanti, e poi a scartar semafori e cagnolini, Viale Leone IV, bastioni Vaticani, porta Angelica, siamo in Piazza San Pietro! Strette di mano, baci e abbracci, e c’è già chi corre via, dall’amore suo, mentre Carlo ci raggiunge in abiti civili, per farci conoscere la “sua” Roma.

E forse me lo immagino, ma sento che ognuno, in silenzio, anche se non vorrebbe darlo a vedere, dentro di sé si commuove.

Luca Gianotti
6 janvier 2011