Franco Michieli
9 June 2020

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9 giugno 2020. L’attesa #10

Care amiche e cari amici,

tra poco sarà estate; penso che nell’ultimo mese molti di voi abbiano ripreso a camminare individualmente o con pochi intimi nella propria Regione. Ora anche i confini immaginari tra Regioni italiane (risalenti a una suddivisione amministrativa ottocentesca provvisoria e priva di significato geografico) sono tornati transitabili. L’importante notizia per noi è che a breve potremo riprendere anche i cammini in più larga compagnia, adattando alcuni dei viaggi previsti alla situazione contingente. Per ora solo in Italia, ma con la prospettiva di tornare a sentirci quantomeno camminatori europei in un prossimo futuro.
La difficoltà di questa ripartenza consisterà nel mettersi in condizioni di condividere esperienze, emozioni e pensieri stando insieme, ma leggermente distanziati fisicamente e con qualche protezione per limitare la possibilità di nuove diffusioni del virus. Ciò che a prima vista pare fastidioso potrebbe rivelarsi un’occasione per evolvere la propria visione del viaggio a piedi verso approcci più autentici e coinvolgenti rispetto alle abitudini recenti. Infatti ancora una volta dobbiamo notare che il rischio di contagio è minimo nel semplice camminare negli spazi aperti, mentre diventa significativo quando con lo stare in natura interferiscono infrastrutture, attrezzature comuni e momenti rituali. In pratica i problemi non riguardano il viaggio a piedi in sé, ma ciò che può avvenire nelle pause: il soggiornare al chiuso nei posti tappa, lo scambiarsi oggetti o cibo, momenti conviviali ravvicinati e così via. Ci si può sentire contrariati, oppure utilizzare la situazione per sperimentare essenzialità e sobrietà che erano tipiche dei percorsi a piedi del passato – che perciò si presentavano come veri itinerari di formazione e crescita – facendo a meno di un eccesso di comodità e servizi che ultimamente distolgono un po’ troppo dal cuore dell’esperienza.
L’intento non è certo quello di penalizzare rifugi, posti tappa e B&B che anzi grazie ai lunghi cammini stanno valorizzando i territori rurali in modo sostenibile e contribuendo alla conservazione del paesaggio; però è tempo di fare propri anche altri approcci alla permanenza in natura, ovvero il pernottamento in tenda o il bivacco all’aperto col solo sacco piuma, scegliendo secondo i casi se fare tappa in rifugio o negli spazi aperti. Del resto gli escursionisti sono così numerosi che per i gruppi è sempre più difficile trovare posto nelle infrastrutture. Il cammino selvaggio, molto praticato nel Nord Europa, può diventare ora familiare anche a noi; in un primo momento potremmo esserne indotti dalle ragioni contingenti di evitare assembramenti al chiuso; ma subito dopo esaltati dalla scoperta che la relazione intessuta col mondo aperto nel dormirci insieme è talmente più ricca e travolgente da non poterne più fare a meno.
La Compagnia dei Cammini ha in calendario da sempre alcuni percorsi selvaggi, con pernottamenti in tenda in luoghi disabitati, frequentati da una percentuale di grandi appassionati di queste esperienze; ora siamo invitati ad avere più coraggio in tanti e ad aprirci a questa possibilità su un maggior numero di cammini; per adattarci a portare nello zaino tenda e saccopiuma occorre un po’ di allenamento in più, il che non potrà che farci bene.
La notte senza muri e tetti ha accompagnato buona parte della mia vita. L’esperienza fondamentale la vissi a 19 anni, nel 1981, quando la sera stessa dopo l’esame orale di maturità mi trovai col mio compagno di banco Andrea a dormire sulla spiaggia di Ventimiglia. La mattina dopo lasciammo il mare per attraversare a piedi le Alpi fino a Trieste (io tutto il percorso, Andrea lasciando il posto ad altri sette amici che mi accompagnarono uno alla volta per un tratto). Da quella notte, per i successivi 81 giorni dormimmo quasi sempre sotto le stelle o le nubi, sotto i rami delle conifere o le rocce sporgenti, nel vento nevoso o nella grande pace; lo facemmo a tutte le quote delle montagne e per qualche ora anche sulla cima del Monte Bianco, dove attendemmo nel saccopiuma il sorgere del sole sopra l’Europa. Nell’immagine di accompagnamento a questa lettera mi vedete con l’amico Alberto durante il bivacco sopra il Ghiacciaio del Gorner, poco prima di scalare la Punta Dufour del Monte Rosa. L’anno seguente, con Andrea e Stefano, ripetemmo lo stesso approccio nella traversata dei Pirenei dal Mediterraneo all’Atlantico, passando all’aperto 39 notti, di cui una sulla seconda vetta della catena, il Pico Posets, alti sopra le remote luci delle città di Francia e Spagna. In entrambi i casi non solo avevamo lasciato a casa la tenda, ma anche il fornello. Mangiavamo pane e formaggio, cioccolato, biscotti e poco altro, bevendo acqua di sorgente dalla borraccia, rifocillandoci al passaggio nei villaggi. Questa sobrietà, questa mancanza di distrazioni rispetto alla vita immensa delle montagne e dei cieli in cui eravamo immersi in permanenza, ci regalò una serenità grande e inattesa, che derivava dall’intimità profonda con gli eventi ininterrotti della natura; in quella condizione, il mondo perdeva ogni indifferenza e pareva accompagnare con un sostegno misterioso il nostro viaggio.
In seguito, avendo scoperto le terre che stanno attorno e dentro il Nord Atlantico, quali Scandinavia, Islanda, Scozia, Groenlandia, dove ho compiuto decine di lunghe traversate, ho aggiunto all’attrezzatura tenda e fornello, indispensabili in quei climi; ma restando fedele agli accampamenti selvaggi e arrivando a togliere in compenso le cartine e gli strumenti per l’orientamento. Ora queste sono le dimensioni che più vorrei condividere con i miei compagni di cammino.
Per uno strano destino, il libro che racconta la mia traversata delle Alpi da ragazzo, e che fin da allora sognavo di scrivere, è andato in stampa 38 anni dopo, nei primi giorni della pandemia, ed è uscito in libreria subito dopo la fine della quarantena. Si intitola L’abbraccio selvatico delle Alpi (Ponte alle Grazie), ed è come se i suoi contenuti avessero atteso dentro di me tutto questo tempo per uscire proprio nel momento in cui hanno da dirci di più. Oggi, accettare l’invito dei cammini selvaggi almeno di tanto in tanto non riguarda solo la nostra personale relazione con la natura, ma ancora di più la comprensione degli equilibri che la reggono. Sono convinto che non possiamo gestire e amministrare la civiltà se non facciamo esperienza autentica e periodica di cosa regge realmente il divenire della Terra. Farci ogni tanto vagabondi senza un tetto ci serve per cambiare strada all’umanità.

Buon cammino selvaggio

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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26 maggio 2020. L’attesa #9

Il grande silenzio delle strade e delle campagne percepito per un paio di mesi al di là delle finestre è cessato; noto che alcuni già si chiedono se ne sia rimasto il ricordo. Scambiando qualche idea a distanza con vari conoscenti, capisco che chi cerca di conservare la coscienza di quanto accaduto, necessaria prima di tutto perché gli eventi non sono per niente chiari, comincia a sentirsi un po’ isolato. Frasi fatte di cui si è abusato per settimane, tipo «non saremo più come prima» o «dopo la pandemia saremo migliori», si confermano retoriche. In diversi contesti la scarsa autodisciplina, il fatalismo, l’imprudenza ripropongono assembramenti per svago che paiono mostrare assenza di memoria del recente passato; mentre forme di riavvicinamento sociale che sarebbero più utili, per esempio a scuola, in eventi culturali o, nel nostro caso, col camminare in piccoli gruppi, restano inaccessibili.
Si potrebbe ricordare l’occasione persa all’inizio dell’emergenza, quando fu scelto lo slogan #iorestoacasa – come se la difesa dal virus dipendesse dallo stare al chiuso anziché all’aperto – e non #iotengoladistanzafisica, o qualcosa del genere, che avrebbe stimolato tutti ad autoeducarsi a tenere distanze corrette dentro e fuori. Ora invece sembra che, se si può uscire di casa, il problema sia risolto.
In realtà la piccola storia di questi mesi sta dentro un divenire della coscienza umana di ben altre dimensioni, che riguarda proprio la concezione del tempo e della memoria. Nelle ultime settimane è sembrato facile riappropriarsi in parte dello spazio fisico abituale; però lo si è fatto a discapito del tempo. Il SARS-CoV-2 non c’entra: aver perduto il tempo e non avercelo più è ciò che definisce l’epoca post-moderna, la nostra. Non abbiamo più Il Tempo, ma saltelliamo senza sosta tra un’infinità di frammenti temporali, scollegati tra loro, come fossero atomi di un gas. Se il tempo non è durata, se un filo narrativo non lo collega da un capo all’altro dell’esistenza, non c’è nemmeno memoria: ogni frammento di vita chiede la sua attenzione istantanea, che subito si abbandona reclamati dal frammento successivo. Basta far scoccare una qualsiasi «fase 2» che la coscienza della «fase 1» finisce nel cestino con un click.
È quanto i filosofi chiamano «la fine della Storia». Che non vuol dire che non accade più niente: eventi formidabili continuano a succedersi, ma non ne esiste più la narrazione. Chi crede di «fare la Storia» la proclama con due twitt, si risponde con due emoji. Moltiplicati per i molti miliardi di smartphone e PC in uso ogni giorno. Ciascuno dei quali, assieme al suo utente, non ha ubicazione spazio-temporale, ma è ubiquitario e istantaneo: è ovunque nel mondo, per l’attimo dell’invio, e subito dopo in nessun luogo.
Il Tempo non è stato sempre così; anzi, per l’umanità ha avuto a lungo forme molto diverse. Un piccolo e meraviglioso libro del filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, medita sulla storia del Tempo con grande chiarezza e tratti di poesia. La sintesi della sua analisi è semplice; nelle età antiche, e fino a ieri per le ultime società native, il tempo dell’esistenza era ciclico: giorni, lune, stagioni, anni, nascite e morti si ripetevano secondo un ciclo perenne; la Storia non correva, ma poneva l’uomo all’interno di un ordine cosmico immutabile che dava il senso agli eventi. L’evoluzione tecnologica e commerciale delle civiltà ha dato vita al successivo tempo moderno: una sorta di linea continua e ascendente, lungo cui ogni conquista avrebbe significato superare il passato, verso quelle che Giacomo Leoparti definì ironicamente «Le magnifiche sorti e progressive»; è in questa dimensione che il tempo ha accelerato, togliendoci il fiato per farci crescere senza fine. Ma è un’illusione finita da un secolo. Oggi si rincorre la crescita per non fallire, non perché il futuro promette meraviglie. E il tempo non sta accelerando, ma, come dicevo, è andato in frantumi. È un abito fatto di toppe, un collage che proviamo ogni giorno a ricomporre con immagini e pensieri vaganti da incollare provvisoriamente, sperando che il disegno mostri un senso per giornata in corso.
Nel suo libro, Byung-Chul Han esplora il pensiero di filosofi e poeti che hanno cercato di ritrovare il tempo come durata, quindi come storia, che si regge sulla memoria. Ma il profumo che dà il titolo all’opera non è solo una metafora. L’autore ricorda che in Cina - molti secoli prima che da lì si diffondesse il coronavirus – esistevano degli straordinari «orologi a incenso» (che chissà, forse qualcuno usa ancora), concepiti secondo il significato opposto di quelli occidentali. La loro funzione, infatti, non era quella di misurare lo scorrere del tempo, ma di riempire il tempo di profumo. Non vanno confusi con semplici turiboli; erano costruiti con molte parti complesse e l’incenso bruciava protetto dalle correnti d’aria da un coperchio intagliato con ideogrammi e simboli, attraverso cui il profumo si diffondeva. La brace si continuava a trasformare in cenere, ma conservando la forma di un segno poetico nel quale era posta. Dunque «Il tempo che profuma non scorre né passa. E nulla si svuota. Il profumo dell’incenso riempie piuttosto lo spazio, anzi spazializza il tempo, conferendogli in tal modo la parvenza di una durata. [...] Questi profumi del tempo non sono narrativi, ma contemplativi, non sono articolati in una successione, ma riposano in se stessi».
Il pensiero di profumare il tempo per coglierlo come durata e permanenza è qualcosa che dovrebbe dire molto a camminatori e vagabondi. È un pensiero che può confermare a chi avesse dei dubbi che c’è una profonda motivazione nel viaggiare senza orologio e a telefono spento, come facciamo nei nostri cammini (nei miei viaggi personali quegli strumenti restano proprio a casa). Si tratta di immergersi nel profumo della Terra e dei suoi eventi. Almeno per quei giorni, per quelle settimane, in cui rientriamo nella natura; quando, per un breve tempo, possiamo cogliere il remoto aroma del tempo ciclico del mondo, e farne memoria.
Io credo che chi si è abituato a questo esercizio non stia affatto dimenticando cosa è accaduto nei mesi scorsi, né intenda dimenticare l’immensa catena di cause che sta alle spalle della nostra esistenza in bilico.

Buon cammino, nel profumo

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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12 maggio 2020. L’attesa #8

Care amiche e cari amici,

ho concluso la precedente lettera in attesa della mattina del 4 maggio 2020, quando ufficialmente il confinamento entro i 200 metri da casa in compagnia del cane si sarebbe interrotto, così da poter camminare più lontano, anche da parte di un qualsiasi “Uomo senza un cane” (titolo di un giallo svedese piuttosto significativo).
Da parte mia quel lunedì mi sono alzato alle 5, sono uscito di casa – che si trova poco sopra quota 400 metri - e ho cominciato a salire sui monti soprastanti, mettendo fine ai quotidiani saliscendi sulla scala di casa. Qualche segno di passaggio recente c’era comunque, ma la vegetazione primaverile era ridondante e sporgeva sui sentieri mostrando come una pur breve assenza dell’uomo le avesse reso un’antica libertà. Salivo rapido e nel grande silenzio suonavano a tratti solo canti di uccelli; la solitudine durava ancora in quelle ore mattutine e mi faceva percepire intensamente l’altro significato della nostra clausura, cioè l’apertura e la libertà guadagnata da altri esseri viventi, di solito intimoriti e confinati dalla presenza umana. Certo, sui nostri monti prealpini bresciani la pressione venatoria è tale che due mesi quasi senza di noi non hanno certo mutato la triste scarsità di mammiferi selvatici, perciò non ne incontravo. Era però la sensazione di un ambiente rimasto indisturbato per un tratto di tempo a essere viva, grazie a segni sfuggenti e appena identificabili, come l’assenza di impronte sulla terra di sentieri e sterrate; o la presenza di erbe e fiori sul suolo dei tracciati stessi, cresciuti grazie al mancato calpestio. Presso una malga un’aquila si è alzata in volo a pochi metri da me, in un silenzio così assoluto da notarla solo all’apparire del profilo scuro nell’aria sopra i miei occhi. Le fioriture selvatiche e coloratissime di innumerevoli specie botaniche esprimevano la prontezza commovente di ogni forma di vita a rinascere, incarnando splendore non appena non glielo venga impedito.
Nonostante fossi a pochi chilometri da casa, la novità del dopo-clausura mi spingeva a cercare angoli di solito evitati, tanto da scoprire su un versante impervio un sentiero non segnato in carta di cui ignoravo l’esistenza; mi ha dato accesso a un canalone erboso ripido e lunghissimo osservato da lontano chissà quante volte e mai preso in considerazione come possibile via. Quella mattina si è rivelato perfetto per dirigere verso l’alto il desiderio cumulato di salire senza divagare; mi ha guidato diritto attraverso la nebbia fitta fin su una cima 2000 metri sopra a casa. Dal crinale, nel nulla bianco, le agili silhouette delle capre osservavano l’ultimo tratto del mio inerpicarmi, mentre mi chiedevo se fosse loro piaciuto passare due mesi lassù senza mai vederci, noi impediti a uscire dalle casupole sprofondate sul fondovalle.
Mi attendeva una discesa lunghissima e per un buon tratto ripida e senza sentiero, su un versante che non avevo mai percorso: una giornata di libertà era troppo preziosa per non farlo. Il cielo tornava ad aprirsi e le fioriture a moltiplicarsi.
La sera dello stesso giorno ero di nuovo in montagna, sopra i 1400 metri, con mia moglie Giovanna e il cagnolino Lampo. Anche lui, come noi, da due mesi non si allontanava più di 200 metri da casa: aveva davvero bisogno di tornare a muoversi negli spazi aperti di boschi, pascoli, ruscelli e nevai. All’età di 13 anni la quarantena ha rischiato di fargli perdere le capacità di movimento in montagna che sono state la gioia della sua vita; perciò, con passeggiate lente e brevi, altre sere della settimana sono tornato con Lampo a quelle quote fresche, dove erbe e neve si alternano; per recuperare insieme le forze. La casa senza muri e senza tetto che è per me la montagna, più autentica e vissuta di ogni edificio, in queste sere mi ha emozionato con l’intensità di quando ero giovane. Nella solitudine silenziosa delle radure, osservando i vapori scorrere tra gli abeti, mi si è riversata dentro una tale percezione di bellezza, non di singoli esseri individuali, ma di quell’insieme in divenire che sta ovunque, composto da una rete di relazioni così vasta da superare ogni possibilità della mente di registrarla, che mi si è formato in testa un pensiero immediato e preciso: che cos’è la nostra arte? Niente. Non è niente in confronto. Per quanto ispirato sia un artista, non può che esprimere in forma simbolica una sua idea. Ma quale quadro, quale libro, quale scultura apparendo a un tratto lì in mezzo a quella natura avrebbe potuto competere con la moltitudine vivente circostante? Nessuno, mi era evidente. Forse solo la grande musica, ho pensato in quei momenti, ha qualcosa a che fare con la bellezza di una composizione naturale; ma solo perché è l’arte che con maggiore magia può evocare nella nostra mente qualsiasi scena del mondo, fra cui gli spazi che stanno oltre l’uomo. E tuttavia, evocare non è essere; nessun simbolo si avvicina all’autentico.
Così, tra questi pensieri, sulle montagne ritrovate e seguendo il divagare curioso del mio cagnolino, ho rinnovato il mio atto di fede nel mistero della natura, che fin da bambino mi ha guidato. Senza riuscire a capire come le relazioni virtuali esplose durante la pandemia possano essere considerate sostitutive, ed essere preferite a un buon silenzio di immagini e parole.
Nella speranza che per tutti noi ci siano ora più possibilità di dedicare il tempo al mondo aperto, anche se non sappiamo quando e come potremo farlo in compagnia, penso sia il momento di raddoppiare il tempo tra le prossime lettere. C’è un’attesa che continua, ma forse con più respiro.

Buon cammino nell’aria aperta

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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3 maggio 2020. L’attesa #7

Care amiche e cari amici,

seguendo il filo degli eventi di cui sentiamo parlare durante questo distanziamento fisico dal mondo (eventi che pochi vedono con i propri occhi), continuo a scontrarmi con la visione abituale di cosa sia l’umanità. Ciò che sta capitando è un’esperienza forte, anche se fatta più di sottrazione che di riempimento; è un tempo di possibile trasformazione delle nostre idee e, come ho scritto in precedenti lettere, la situazione richiederebbe un cambiamento della definizione di essere umano.
Sono settimane che continua a risuonarmi in mente un’affermazione che mi rimase impressa molti anni fa, durante il liceo, e che mi lasciava scettico: «L’uomo non è uomo se non in mezzo agli altri uomini». Mi pare che diversi filosofi fecero propria questa convinzione, ma non ricordo chi. Il concetto del resto è ampiamente accettato, ritenendo che l’uomo sia un animale sociale e che possa sviluppare normalmente la propria personalità solo in relazione con i suoi simili. Io diffidavo di questa affermazione perché la intendevo a modo mio: non solo sembrava mettere in discussione l’umanità degli eremiti, ma avendo già sperimentato tempi di solitudine e isolamento sulle montagne e nella natura, non potevo pensare che quella relazione fosse insignificante rispetto alla compagnia umana. Quell’affermazione diceva una verità parziale, cioè che abbiamo bisogno di un nostro simile per riconoscerci come persone umane e non come qualsiasi altra cosa, ma ne escludeva altre: cioè che ogni elemento dell’ambiente in cui viviamo, naturale e artificiale, contribuisce alla nostra identità e a permetterci di agire in un modo o nell’altro. Siamo definiti dal rapporto con l’intero mondo vivente in cui siamo inseriti e dai mezzi materiali e culturali a nostra disposizione, non solo dalle altre persone. Oggi la tecnologia sta divenendo una componente dell’essere umano che si aggiunge alla natura: formiamo sistemi interconnessi in evoluzione.
Si tratta di una visione che sta tornando di grande attualità grazie agli studi d’avanguardia in tutte le scienze, comprese quelle umane, e che paradossalmente si riavvicina al punto di vista delle società arcaiche di cacciatori e raccoglitori, pur con prospettive molto diverse. Ciò che viene messo in crisi dalla Storia e dalla ricerca è l’uomo cartesiano, un modello in cui l’anima razionale, ritenuta presente solo nella nostra specie e in nessun’altra, sarebbe distinta dal corpo e se ben usata avrebbe il potere di controllare e plasmare la materia per la propria utilità. La materia, in questa visione, non avrebbe altro fine che servire l’uomo. L’esempio letterario di questa tipologia di individuo è Robinson Crusoe, che naufrago sull’isola deserta riesce a plasmarne la natura con la sua intelligenza, soggiogandola al proprio volere. La realtà che stiamo riscoprendo mostrerebbe invece un naufrago che, imparando a relazionarsi con l’habitat dell’isola, potrebbe scoprire come sopravvivere grazie al contributo creativo di molte componenti geografiche ed ecologiche dell’ambiente, in relazione attiva con lui fin dal momento del suo approdo. L’intelligenza appartiene all’insieme e non al solo individuo. Del resto nuovi studi sugli animali e sulle piante mostrano che intelligenza e cognizione sono diffusi ovunque, con una varietà di soluzioni immensa, che abbiamo appena iniziato a comprendere. Al tempo stesso, come vi ho già accennato, un uomo non è un individuo delimitato dalla sua pelle, ma un pianeta poroso, in cui vivono in media 100 trilioni di microrganismi (“simbionti”), indispensabili alla sua sopravvivenza e in continuo scambio con l’ambiente circostante. Anche intelligenza e cognizione, in altro modo, sono continuamente scambiate con l’ambiente.
Comprendo bene questa seconda visione perché ne ho sperimentato la realtà in modo inusuale. L’aver intrapreso lunghe traversate a piedi senza portare con me mappe, strumenti per l’orientamento e informazioni dettagliate mi ha posto di fronte al mistero della via che pare crearsi da sé davanti ai miei passi, anche e in particolare con scarsissima visibilità. Non essendo possibile attribuire solo a me stesso la capacità di tenere la rotta senza errori in mancanza di riferimenti, emerge con forza la coscienza che l’intero contesto in cui mi muovo contribuisce alla soluzione.
Dal mio punto di vista, le scelte delle istituzioni per fronteggiare il Covid-19 sono particolarmente dolorose non perché vi siano errori di intervento, fatto inevitabile, ma perché sembrano mancare completamente di questa coscienza. La cultura italiana è talmente ancorata a visioni dell’uomo tipiche dei secoli passati che anche in questa crisi il linguaggio e i provvedimenti sembrano inquadrare solo l’umanità in lotta con il virus nemico; è presa in considerazione solo la civiltà attuale, come se potesse sussistere in forma indipendente. Il valore del rapporto con la Terra non esiste: derubricato a “passeggiate”, “turismo”, “seconde case”, insomma a un superfluo che riguarderebbe solo la tenuta psicologica (e l’economia) e non il contributo fondamentale alla nostra evoluzione verso migliori equilibri.
Come mai tutto il nostro mondo di esperti d’avventura, di ambientalisti ed ecologisti innovativi, di scrittori e cineasti che raccontano le relazioni tra le persone e la Terra, di appassionati riuniti in associazioni ecc., di cui faccio parte, sembra non esistere e non si riesce a trovarne traccia nel discorso pubblico dell’emergenza? Perché mezzo Paese si infiamma per il trasferimento estivo di massa dalla quarantena in casa a quella dentro serre di plexiglas sulle spiagge a pagamento, mentre la ricerca esperienziale nella natura aperta è ignorata da qualunque figura istituzionale?
Le risposte sono così numerose e complesse che preferisco lasciare le domande aperte. Certo la situazione ci chiede di partecipare a un rinnovamento della cultura occidentale, che implica un cambio importante di linguaggio a partire da letteratura e cinema, oltre che nella comunicazione scientifica; affinché si diffonda una concezione più vicina alle reali interconnessioni tra tutte le cose e tra esseri viventi, le nuove narrazioni dovrebbe esserne testimoni, togliendo ai personaggi umani l’aura di individui indipendenti da ciò che li circonda. Anche il valore dell’avventura e dell’outdoor sarebbe forse più riconoscibile se narrato come relazione piuttosto che come impresa individuale.
Oggi tutti condividono parole e immagini, tutti si improvvisano comunicatori: la responsabilità di cambiare linguaggio riguarda ognuno. Ma inventare i nuovi linguaggi a tavolino sarebbe una contraddizione in termini: solo la condivisione di percorsi col mondo intorno a noi può suggerirci storie autentiche ed efficaci.
Se dal 4 maggio si potrà riprendere a camminare da soli, o in due distanziati, sarà forse un buon momento per rileggere il contributo del paesaggio e della sua vita su ciò che siamo.

Buon cammino di relazione

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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27 aprile 2020. L’attesa #6

Care amiche e cari amici,

scrivo questa mia sesta lettera in attesa di una liberazione dalla crisi presente la mattina del 25 aprile, 75° anniversario della liberazione dal nazifascismo e dalla guerra. Due liberazioni distanziate di tre quarti di secolo e molto diverse, che non è il caso di confondere. Entrambe però strapiombanti verso il futuro, perché una nuova libertà non verrà da sé e nessuna conquista (ammesso che sia compiuta) è permanente. Senza mutare il senso della ricorrenza, il concetto universale di “liberazione” può però essere focalizzato su cosa siamo oggi noi viventi della Terra, per riconoscere la necessità di ampliare il contesto di ciò che merita e necessita di essere liberato. Nulla di nuovo, ma il coronavirus ne facilita la comprensione.
Il problema storico della libertà è che in genere viene riferito a un “noi”. Noi ci liberiamo. Alcune grandi tragedie rivelano che la libertà del noi è ingannevole e che il semplice fatto di percepirci separati dalle molteplici realtà del cosmo in cui viviamo – tanto da permetterci di lasciarle soggiogate come se non avessero influenza sulla totalità – da un momento all’altro provoca reazioni incontenibili che ci fanno ritrovare tutti in catene.
Durante l’evoluzione delle civiltà, cioè in un tempo brevissimo rispetto alla presenza di Homo sapiens sulla Terra, è avvenuta una separazione ideologica netta tra uomo e altri esseri viventi, che nelle società di cacciatori e raccoglitori era inconcepibile. Tutte le civiltà agricole e stanziali, fino alla rivoluzione industriale, hanno potuto svilupparsi esclusivamente grazie alla domesticazione di un numero molto ristretto di particolari specie animali e vegetali e per mezzo del lavoro svolto da alcuni di questi animali, allevati in schiavitù. Senza la forza animale, l’umanità non avrebbe mai prodotto le civiltà dell’Eurasia. Al sorgere di regni sufficientemente potenti, gli animali da lavoro sono stati affiancati da schiavi umani sequestrati fra popoli stranieri sconfitti e trattati in identico modo. A giustificazione dell’impostazione economica, non solo si sono definiti inferiori gli schiavi stranieri, ma tutti gli esseri selvatici sono stati separati dal destino umano e considerati, assieme agli animali domestici, “esseri irrazionali”, e quindi soggetti all’arbitrio della volontà umana. Animali predatori e roditori sono stati etichettati come “nocivi”, talvolta simboli stessi del male, e sterminati. Altri sono stati portati verso l’estinzione per la loro bellezza, per la richiesta superstiziosa di parti del loro corpo o per la facilità di catturarli per cibarsene. In epoca moderna, il successo del metodo capitalistico descritto e promosso da Adam Smith con l’identificazione tra crescita economica e felicità, accompagnato dalla convinzione che non esista alcun limite a questo processo espansivo, ha esasperato il consumo degli ecosistemi terrestri. La competizione nella crescita economica fra potenze capitaliste e regimi comunisti totalitari ha globalizzato un unico approccio predatorio, oggi quasi uniforme sul pianeta.
Ora si tratta di comprendere perché le grandi epidemie, al pari di altri vasti problemi, sono l’effetto di questo approccio ideologico ed economico. I virus esistono dalle prime epoche della vita sulla Terra, quindi anche i primi ominidi convissero con loro. La prima preistoria però non era funestata da grandi epidemie, per due motivi semplici: primo, l’uomo nomade non conviveva in spazi esigui con animali ammassati in stalle, né attraeva roditori accumulando cibo nei granai, perciò era più difficile che un virus “saltasse” da animale a uomo; secondo, gli ecosistemi contenevano tutta la biodiversità prodotta dall’evoluzione, perciò predatori e prede erano in equilibrio tra loro e non vi erano interruzioni nella catena alimentare: gli esemplari malati di ogni specie, compresa quella umana, a differenza dei sani divenivano facilmente preda dei carnivori e ogni sviluppo epidemico era stroncato sul nascere. Oggi, per fare un esempio, camosci e stambecchi delle Alpi sono periodicamente decimati da epidemie perché i loro predatori naturali sono stati sterminati dall’uomo, manca cioè il principale strumento di selezione naturale che sottragga dal branco i portatori di patologie (una seria presenza di lupi, orsi e linci potrebbe ricreare l’equilibrio). La domesticazione del fuoco, iniziata dagli ominidi forse già oltre un milione di anni fa, e, molto dopo, il trasferimento delle comunità al riparo negli edifici, permisero ai nostri progenitori di tenere a bada o fuori i predatori, proteggendo i malati. Così epidemie locali poterono svilupparsi nelle prime civiltà; finché commerci, esplorazioni, invasioni e incremento demografico non permisero rapidi contatti continentali e intercontinentali, inaugurando le pandemie umane.
La situazione odierna tuttavia non ha precedenti. Tra gli animali di medie e grosse dimensioni, noi umani siamo i più numerosi, sette miliardi e mezzo, e ci teniamo in contatto fisico attraverso tutto il globo con rapidi spostamenti; presso di noi si trovano le uniche altre specie animali di medie e grosse dimensioni presenti in numero di miliardi, cioè gli animali domestici degli allevamenti intensivi. Gli animali selvatici vivono invece in numeri piccolissimi e in popolazioni per lo più isolate tra loro; di conseguenza, nessun virus può avere successo globale sfruttando i loro corpi. La deforestazione e la penetrazione dell’uomo in ogni angolo del pianeta permettono invece che qualche virus degli animali selvatici si adatti a noi o ai nostri animali d’allevamento; con la garanzia di essere trasportato gratis lungo le nostre rotte globali. Per i virus non è mai esistita una condizione così favorevole: se mutano adattandosi alle cellule umane, dopo un eventuale passaggio negli animali d’allevamento, in pochi mesi conquisteranno il mondo. Non essendo possibile farlo grazie ad altre specie, l’evoluzione li spinge a noi, uno dopo l’altro.
Mai come oggi appare evidente che nessuna liberazione può fondarsi sul “noi”. Non solo sul noi come fazione o popolo, ma nemmeno sul noi come umanità. Antropocentrismo ed estinzione sono sinonimi. Solo la vita intera può essere liberata, se chi si crede il più forte vuole salvarsi.
Tra le molte scelte urgenti da compiere, due sono decisive, collegate tra loro e dipendenti dai comportamenti di ciascuno: fermare la deforestazione e ricreare habitat sufficientemente vasti destinati alla ricostituzione della biodiversità e delle catene alimentari, prima condizione per moderare l’invasione dei virus; un risultato ottenibile solo riducendo drasticamente gli allevamenti di animali da carne, in particolare quelli intensivi, e restituendo alla foresta gli enormi spazi occupati dalla coltivazione di foraggi per mangimi; come noto, mangiare direttamente prodotti agricoli anziché trasformati in carne consente un risparmio enorme di terreni e risorse naturali a parità di valori nutritivi.
Ridurre al minimo il consumo di carne e pesce, o scegliere un’alimentazione vegetariana, è oggi un atto patriottico, dove si riconosce che la patria è la Terra. Al tempo stesso occorre riconoscere che l’ulteriore crescita demografica nello spazio finito del nostro pianeta non è sostenibile, ma va spostata nel tempo: è necessario limitare grazie ad approcci consapevoli e non tirannici il nostro numero affinché molte generazioni possano continuare a succedersi.
Simili consapevolezze non sono nuove, ma furono espresse da saggi di epoche antiche, oltre che tramandate da popolazioni native. Già il libro Genesi della Bibbia quasi 3000 anni fa riconosceva il problema del cibarsi di altri animali come idealmente inaccettabile, tanto da descrivere un mondo appena creato totalmente vegano, che diventa carnivoro solo in seguito a una caduta. Dio chiede inoltre al personaggio mitico di Noé di salvare la biodiversità e dopo il diluvio stabilisce un’alleanza sacra tra sé e tutti gli esseri viventi, ribadendo che l’uomo, a causa del suo potere, è responsabile del destino degli animali. Ma l’economia dipendente dagli animali domestici sviluppata dalla civiltà ha portato a interpretare queste pagine in senso opposto per propria convenienza: la tradizione ha stabilito che animali e piante siano al totale servizio dell’uomo. Con le conseguenze che vediamo.
Cercando oggi una liberazione dobbiamo accogliere con noi l’intera comunità vivente, oppure abbandonarci alla catastrofe. In modo nuovo, torna alla mente la celebre intuizione dell’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, dove dice che «anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi». 2000 anni fa Paolo aveva fede che la possibile salvezza spirituale dell’uomo avrebbe condotto con sé tutta la creazione, l’universo intero. Ora potremmo intendere che solo la liberazione della natura terrestre dall’avidità egoistica potrebbe condurre anche noi verso la salvezza. E anche in questo caso si tratterebbe di una conquista spirituale.

Buon cammino di liberazione

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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20 aprile 2020. L’attesa #5

Care amiche e cari amici,

penso che col passare delle settimane anche molti di voi abbiano sentito che scarseggia qualcosa di fondamentale nel modo in cui si sta affrontando l’epidemia. Non mi riferisco solo alla comunicazione dei dati e delle scelte, che è caotica, irrazionale e incapace di offrire basi corrette per leggere la realtà; scarseggia anche qualcos’altro, come mi è facile notare percependo le mie variazioni di umore tra una giornata e l’altra. Per esempio, durante le “scalate” ormai quotidiane su e giù per i 34 gradini tra la cantina e il piano superiore, che ho intensificato fino a superare 1200 metri di dislivello di seguito, trovo enormi differenze di senso secondo la mia capacità di “vedere oltre” oppure no. Se l’obiettivo si limita a salvare il salvabile fisicamente, cioè mantenere il corpo decentemente in salute e in forma, fatica e insofferenza crescono. Se invece riesco a mettere in relazione quella fatica alla bellezza di una dimensione da raggiungere di nuovo nella vita, perfino la scala ombrosa diventa quasi entusiasmante; ma solo perché non è fine a se stessa.
Nei giorni scorsi ho pensato che per restare preparato ai cammini nella natura sarebbe stato utile ricaricarmi in spalla lo zaino. Ne ho riempito uno di materiale da alpinismo e di pesi da immersioni subacquee così da farlo pesare 20 kg. Può sembrare strano, ma rimettermi in marcia col carico su e giù per la scala è stato fonte di forte motivazione e la fantasia mi ha riavvicinato alle situazioni meravigliose dei cammini selvaggi; l’euforia di sentire lo zaino in spalla mi ha spinto a immaginare nuove impostazioni per viaggi futuri e a sognare nuove traversate di terre.
Qual è dunque il segreto che aiuta a trasformare situazioni difficili in qualcosa di costruttivo? Una delle risposte più interessanti e sintetiche, che ho letto e condiviso lo scorso anno con molti compagni di cammino, l’ha proposta il filosofo, matematico e alpinista norvegese Arne Næss. Fondatore dell’ecologia profonda, Næss ha testimoniato fra l’altro come una vita sobria e in equilibrio con la Terra offra soddisfazioni molto maggiori di quella produttivistica-consumistica. Sul tema ha elaborato una formula sorprendente, ricordata dall’esploratore e scrittore suo compatriota Erling Kagge nel libro Camminare. Un gesto sovversivo (Einaudi), che così la commenta:

«Per Arne Næss il benessere era collegato a due elementi: l’ardore e il dolore. Distingueva poi il dolore fisico da quello spirituale. Da filosofo con inclinazioni matematiche elaborò una formula del benessere. La prima volta che la vidi, dovetti applicarne la logica perché è tanto geniale quanto semplice, e vera:

B = A²/Df + Ds

dove B = benessere, A = ardore, D = dolore, f = fisico, s = spirituale. Næss ha precisato che A può essere elevato a qualsiasi potenza».

Secondo questa visione, che è facile mettere alla prova, il benessere cresce molto più rapidamente aumentando l’ardore, cioè la passione, la gioia, il coinvolgimento, piuttosto che cercando di ridurre il dolore senza “ardere” affatto. Eliminare del tutto dolori e fatiche è del resto impossibile, se non ibernandoci; al contrario, l’intensità motivazionale con cui cerchiamo di intraprendere esperienze autentiche, o di realizzare opere preziose per il bene comune del pianeta, può aumentare oltre ogni limite predefinito.
Affrontare il dolore, inteso anche come fatiche, rischi e privazioni non obbligatori, è una via che ci permette di crescere come persone e raggiungere soddisfazioni profonde. Kagge aggiunge le affermazioni di un altro filosofo alpinista amico di Næss, Peter Wessel Zappfe, che criticano le troppe comodità e sicurezze: «Avvalersi di un eccesso di aiuto tecnico corrisponde a un furto sconsiderato delle riserve esperienziali degli uomini […]. Zappfe considera il bisogno di rendere tutto più semplice come una censura alle nostre possibilità di vivere grandi esperienze».
È chiaro che è l’ardore ciò che manca nella reazione al coronavirus messa in campo dalle istituzioni; o meglio, manca la consapevolezza di quanto sarebbe importante tenere alto questo fattore e prevedere spazi e comunicazioni adatti a stimolarne la libera crescita. Benché sia proprio l’eccezionale ardore ad animare medici e infermieri nel compito quasi impossibile della cura in questi frangenti, la scelta dall’alto è di ibernare il più possibile il resto della popolazione, promettendo di combattere il dolore come unica istanza. In verità è questo il sogno di ogni potere sulla Terra, descritto in opere di grande lucidità, da autori come Dostoevskij e Orwell: un popolo contento di ricevere pane e sicurezza, e che rinuncia in cambio all’ardore.
La ragione è che i più straordinari gesti di reazione a condizioni di mancanza di libertà e grave ingiustizia mostrano quanto l’ardore possa essere superiore al dolore e di conseguenza divenire pericoloso per il potere. I martiri, laici o religiosi, sono i testimoni di questa straordinaria forza. Dai cristiani durante le persecuzioni imperiali, a Gandhi che accetta di subire violenza senza reagire, l’ardore non violento è riuscito più volte a ribaltare situazioni insostenibili. Ha anche lasciato esempi ineludibili; per esempio da parte di chi ha avuto tanto ardore da vincere la paura delle fiamme, dandosi fuoco spontaneamente contro la tirannia: come Jan Palach a Praga nel 1969, imitato in seguito da altri giovani, prendendo spunto dai monaci buddhisti che avevano compiuto lo stesso gesto durante la guerra del Vietnam.
Se per superare la crisi ci limitiamo ad attendere soluzioni pratiche contro il virus, finiremo per ritrovarci con lo stesso sistema socio-economico di prima, ulteriormente decurtato di importanti libertà. Sviluppare passione e coinvolgimento sarebbe più utile per ottenere un mondo meno precario, dove l’autodisciplina permetta una libertà accresciuta.
L’attesa è il tempo in cui tenere sveglio un desiderio ardente. È affascinante, per noi camminatori, pensare al significato di questa parola. Ho letto nelle note di un padre gesuita, Gian Giacomo Rotelli, che “desiderare” pare venga dal De Bello Gallico di Giulio Cesare: «I desiderantes erano i soldati che stavano sotto le stelle ad attendere quelli che, dopo aver combattuto tutto il giorno, non erano ancora rientrati. La radice è: sidera, stelle. Desiderare: stare sotto le stelle e attendere (chiaramente) qualcuno. Il desiderio è l’attesa di un incontro, di un ricongiungimento, della realizzazione di una relazione».
Desiderio ha una radice che fa venir voglia di scoperchiare il tetto e di stare sotto il cielo aperto.

Buon cammino, con ardore

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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14 aprile 2020. L’attesa #4

Care amiche e cari amici,

siamo nel pieno della primavera, dalle finestre o durante le brevi uscite con il mio cagnolino vedo inverdirsi gli alti versanti delle montagne proibite, stormi di uccellini si inseguono e riempiono chiome di alberi e arbusti, forse rallegrati dal maggiore spazio e dal silenzio che si trovano a disposizione grazie al ritiro degli umani. È inevitabile accorgersi che la grande calma ritrovata dai paesaggi contrasta con linguaggi e terminologie che molti personaggi pubblici hanno fatto propri nell’ultimo mese e mezzo, riassumibili nello slogan «Siamo in guerra».
A fine marzo il monaco della Comunità di Bose Guido Dotti, direttore delle Edizioni Qiqajon, ha reagito con una lettera aperta che comincia con queste parole: «No, non mi rassegno. Questa non è una guerra, noi non siamo in guerra». Dotti cita altri interventi di autori che nei giorni precedenti hanno analizzato la strategia del linguaggio guerresco dilagante, e si chiede quale diversa terminologia esprima correttamente la situazione in cui ci troviamo; e conclude: «Siamo in cura!».
È vero che è in corso una «guerra dei dazi» fra Stati Uniti e Cina e che il virus forse metterà in ginocchio chi ha attaccato, ma è ancora più evidente che ciò che di buono si sta facendo per resistere alla pandemia è tutto concentrato nel concetto di cura; è l’esatto opposto della guerra, di cui non dovrebbe essere necessario ricordare le caratteristiche. Tuttavia la terminologia di guerra conviene sempre al potere, perché permette di inventare nemici e di trasformare gli uomini in numeri, e quindi di impaurire e controllare con maggiore facilità. Oggi sia chi usa questo linguaggio, sia chi lo assorbe acriticamente, ci casca per il semplice motivo che la guerra vera non l’ha mai vista; quando poi a parlare così è gente di potere, si può sospettare che non abbia fatto nemmeno la naja, o l’abbia fatta da imboscato. Bisognerebbe inoltre ricordare che da quando iniziarono le Guerre d’Indipendenza, nel 1848, i Savoia prima e il Regno d’Italia poi hanno condotto esclusivamente guerre di aggressione, comprese quelle alla conquista di un impero d’oltremare, tanto che da quasi 200 anni nel nostro Paese non esiste l’esperienza di cosa sia una guerra difensiva nazionale; semmai, ci sono state guerre civili che hanno coinvolto in un’ottica di resistenza piccole percentuali di italiani, contro il nazi-fascismo e, in altro senso, negli anni del terrorismo.
Alla radice dell’affermazione «Siamo in guerra» c’è tuttavia proprio il complesso di inferiorità più o meno inconscio delle generazioni di mezza età, mancanti di quell’esperienza fondamentale che formò il carattere e la conoscenza di padri e nonni, le quali finalmente, non senza un malcelato gusto, possono dire: «È capitato anche a noi! Ora anche noi potremo dire di aver preso parte a una guerra!». Molti commentatori sottolineano questo passaggio iniziatico per le generazioni nate nel nostro lungo periodo di pace e abbondanza.
Anch’io sono cresciuto ascoltando racconti di situazioni della seconda guerra mondiale; li ho molto interiorizzati, tanto che mi hanno accompagnato per lunghi periodi con incubi ricorrenti. Tuttavia questa è una delle ragioni per cui mai definirei guerra una pandemia; anzi, quante volte in passato ho detto o ascoltato affermazioni come «Speriamo che la prossima inevitabile crisi dell’umanità non sia una guerra, piuttosto una malattia!». Da scrittore, inoltre, trovo indispensabile evitare l’uso improprio delle parole. In una società che vive di virtualità, alle parole si può far dire tutto e il contrario di tutto; per questo quando parliamo dovremmo sempre far riferimento a un’esperienza che ci ha chiarito il senso di quello che diciamo, e che permetta all’ascoltatore di metterlo alla prova con un’esperienza sua.
È qui che lo scontro concettuale fra guerra e cura trova un contatto forte con l’esperienza del camminare, o meglio del dedicarsi all’avventura in senso lato, in situazioni che mettono alla prova, per crescere o per portare aiuto a persone e ambienti. Da quando da ragazzo, a 19 anni, attraversai a piedi le Alpi in 81 giorni da Ventimiglia a Trieste, bivaccando all’aperto e compiendo molte ascensioni alpinistiche, ho avuto occasione di chiarirmi una verità che da allora mi stimola e accompagna costantemente: per prendere coscienza delle potenzialità nascoste nella vita e imparare per quanto possibile a dirigerle bene è indispensabile sperimentare le situazioni critiche fondamentali degli esseri viventi. Quindi fame, sete, fatica, pericolo, difficoltà, solitudine, fragilità, sofferenza; situazioni in cui possono sorgere la disperazione o l’estrema tentazione di arrendersi. Si attinge alla conoscenza profonda nei momenti in cui ci accorgiamo che la persona limitata alla sua normalità è insufficiente, è troppo debole e non può che fallire. Quando scocca una scintilla che ci costringe a rivolgerci a un ignoto, a una potenzialità dormiente, che di colpo dobbiamo evocare per non soccombere. Nelle fiabe queste risorse nascoste sono impersonate dalle fate, che intervengono nei momenti estremi. Nella coscienza reale prendono piuttosto vita come interlocutori spirituali, un “tu” altro da noi a cui in quel momento si capisce di dover chiedere una forza invisibile e indefinibile. Quando questo accade la dimensione dell’esistenza è più ampia di prima.
Più sono state impegnative le lunghe traversate di terre selvagge che ho compiuto, più mi si è chiarita la necessità di questi tempi di conoscenza. E mille volte mi sono ripetuto: le esperienze forti nella natura devono essere praticabili e praticate, altrimenti per attingere a certi livelli di conoscenza non ci resterebbero che la guerra e la malattia. La malattia può essere non evitabile, ma la guerra sì. Sarebbe terribile dover affidare la crescita della coscienza a tragedie cruente e distruttive, che alla lunga arrivano sempre se esperienze difficili, svolte però pacificamente, non ci hanno formati e messi sull’avviso. Ancora una volta, la pretesa di vivere in sicurezza è il più grande pericolo, perché non ci forma a prevenire le catastrofi.
Oltre all’incertezza di un cammino impervio e non protetto, ci sono molte altre avventure che formano più e meglio di una guerra. Da parte mia le ho conosciute tra i missionari e i volontari dell’Operazione Mato Grosso che operano sulle Ande, in situazioni di povertà e scarsezza di mezzi impressionanti, e dove tuttavia nell’ottica della cura e non del conflitto vengono estratte dal nulla, o meglio dalla spiritualità, energie e capacità inimmaginabili nella vita normale. Qualcosa che assomiglia forse alle imprese di molti medici e infermieri per arrangiarsi a curare malati gravi con strutture e protezioni insufficienti.
Penso che quando potremo ritrovarci assieme in cammino, speriamo senza serie limitazioni nei contatti reciproci, dovremmo apprezzare ancora di più la sobrietà degli strumenti di viaggio, la possibilità di perderci, l’eventuale digiuno per aver terminato i viveri, la fatica di tappe impervie; ciò ci aiuterà a capire, in condizioni di pace, quanto bisogno di cura c’è nelle persone e nella natura, e a sostenere con più forza i necessari cambiamenti nelle pretese umane.

Buon cammino curativo

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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7 aprile 2020. L’attesa #3

Care amiche e cari amici,

un’altra settimana è trascorsa senza che in apparenza sia cambiato nulla: per molti di noi sempre la clausura ripetitiva, le stesse notizie spostate di data, nessuno spiraglio sulla ripresa delle attività di cui viviamo. La relazione con l’ambiente naturale, che a noi sta particolarmente a cuore e che sappiamo essere un elemento non secondario della vita, è scomparso da qualsiasi discorso pubblico, quasi fosse l’ultima delle frivolezze a cui pensare. Ma si scopre anche che non in tutti i Paesi del mondo la si pensa così: alcuni dei più avanzati e istruiti, la Svezia e la Svizzera, hanno sì chiuso molte attività e trovato soluzioni di distanziamento, ma non vietano di uscire singolarmente e senza assembramenti negli spazi aperti; ritengono che si tratti di un bene insostituibile per la salute complessiva delle persone e che sul lungo periodo la scelta potrebbe portare a danni minori della quarantena totale a tempo indeterminato. Certo quei Paesi sono aiutati dalla disponibilità di vasti spazi naturali prossimi ai centri abitati e da una minore densità della popolazione; inoltre solo col tempo si potrà constatare quali scelte avranno permesso di limitare meglio i danni alla salute fisica e mentale, all’economia, alla cultura e all’ambiente.
Il semplice fatto che stiano emergendo modi diversi di affrontare la pandemia, anche tra regioni italiane, implica il dubbio crescente che da qualche parte si stiano commettendo errori. Alcuni sono evidenziati da inchieste sempre più numerose e da studi che rivelano caratteristiche della diffusione del virus che inizialmente non erano note. La tentazione ora è di arrabbiarsi per ciò che di sbagliato si è fatto e si continua a fare, ma io vorrei cogliere l’occasione per considerare una necessità opposta e assai più naturale: l’inevitabilità e anzi l’utilità di convivere con ciò che chiamiamo errore.
L’assurdo stimola a volte la riflessione. Mentre cammino rapidamente per 166 volte su e giù per la scala interna a casa mia, arrivando così un paio di giorni fa a superare 1000 metri in salita – dislivello che spesso si raccomanda per allenarsi ai cammini esplorativi della Compagnia e che quindi voglio tenere attivo come pegno per la ripartenza – cerco il modo di leggere in positivo il senso dell’errore.
La nostalgia degli spazi naturali si intreccia per me con l’apprezzamento della cosiddetta imperfezione. L’andare per settimane senza sentieri e senza mappe è una continua esplorazione del tragitto imperfetto, deviante e inaspettato; sembra un cammino pieno di errori; ma, finché viviamo il vagabondare come costituente la via non pianificata che intraprendiamo, ogni curva, ogni spostamento dalla rotta ideale è parte di lei. Le indicazioni silenziose della natura creano quella particolare via istante dopo istante. Nulla è errore, ma occasione di scoperta e relazione, assai più di un tracciato diritto e sicuro.
I vantaggi per la conoscenza e la consapevolezza offerti da questo modo di procedere sono immensi non per caso, ma perché è così che la natura si trasforma e l’evoluzione produce la sconfinata varietà degli esseri viventi. Nulla di vivo ci sarebbe sul pianeta oltre a materia organica primordiale se i codici genetici nel duplicarsi non continuassero a “sbagliare strada” mutando e scoprendo per caso combinazioni che danno vita a esseri “adatti”, o meglio in equilibrio con l’ambiente: né troppo forti, né troppo deboli, così da non distruggere tutto e non essere distrutti del tutto. Ogni meraviglia della vita, fino al funzionamento della nostra immaginazione, è nata così. Ogni tanto può emergere qualche creatura troppo forte per restare in equilibrio, e il dubbio atroce è che proprio noi siamo fatti così, a causa delle nostre capacità tecnologiche. Può capitare anche a un virus, che se ammazza tutti gli esemplari della specie in cui prospera a sua volta si estingue.
Imperfezione, incertezza e fragilità sono invece ciò che perpetua l’esistenza e che ne rinnova la bellezza. L’illusione della sicurezza e della perfezione (dei corpi, degli oggetti, delle strategie), dilagata negli ultimi decenni, è la ragione del vero errore, paradossale, del non voler convivere con gli “errori”. La digitalizzazione dei linguaggi, delle icone e delle forme di produzione ha in questo un’enorme responsabilità: perché non ammette deviazioni, riproduce ogni segno virtuale in modo identico, facendoci credere che le variazioni infinite della materia siano un difetto superabile e da superare. Eppure, comprendiamo che un oggetto fatto a mano, pieno di piccole imperfezioni, è più bello di uno uscito dalla stampante 3D.
Sicurezza e perfezione non esistono al di fuori della virtualità. Sono concetti ideologici alla base delle peggiori tragedie dell’umanità e della Terra. La corsa infinita alla sicurezza è la «bomba di fine mondo», come si dice nel celebre film di Stanley Kubrick.
La pretesa dell’infallibilità mi preoccupa perché molti studi di avvocati sono partiti all’attacco offrendo a malati e parenti di malati di coronavirus la prospettiva di denunciare medici e strutture sanitarie in cerca di imperfezioni nel loro operato nell’emergenza; lo scopo ovviamente è richiedere denaro tramite processi. Ma è una spada di Damocle che incombe anche su qualsiasi cammino a piedi, dove in caso di infortunio chi nel gruppo risulta essere il più esperto è considerato responsabile del danno; come se nel mondo esistesse la perfezione, e la sua incrinatura significasse dolo.
Una conquista che non dovremmo lasciar passare ora è recuperare l’errore come senso e stimolo della vita; come compagnia che ci fa crescere in ogni momento e ci aiuta a comprenderci l’un l’altro. In tutte le attività si sbaglia, spesso non per cattiveria, ma perché l’universo ha questa logica evolutiva.
Il mio pensiero è che, se supereremo la pandemia, proprio noi che camminando apprezziamo le incertezze di percorso potremmo testimoniare una riconciliazione con l’errore in ogni attività umana. E sostenere l’opportunità di una pacificazione generale tra tutti i soggetti, che sostituisca la possibilità di rivalersi proprio su medici e infermieri, che più di tutti hanno rischiato per salvare vite, secondo un modello di riconciliazione simile a quanto avvenuto in Sudafrica alla fine dell’apartheid. Capire per fare meglio un’altra volta, prendendosi e dividendosi tutti parte delle responsabilità, con l’obiettivo di allargare l’approccio ad altri contesti e arginare l’incultura della sicurezza. Conviene provarci, perché il peggio non si tira indietro da sé: «errare diabolicum est, perseverare autem humanum» (variazione opportuna nel XXI secolo).

Buon cammino incerto

Franco Michieli
franco@cammini.eu

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1 aprile 2020. L’attesa #2

Care amiche e cari amici,

in questa impossibilità di vederci o solo di ipotizzare quando e come potremo ritrovarci insieme in cammino, vorrei riprendere il filo dei pensieri iniziati con la lettera della scorsa settimana; una classica lettera, che viaggia in rete, ma che conserva i modi meditativi della corrispondenza tradizionale.
Fino a poco tempo fa non avrei mai immaginato di trovarmi rinchiuso in una delle aree della Terra dove una nuova pandemia raggiunge la più alta densità di contagio al mondo: la provincia di Brescia, accanto a quella di Bergamo. In realtà qui, nella Valle Camonica, la malattia è meno diffusa che in pianura o nelle valli accanto. Del resto nulla dura, e questo primato purtroppo si sta già spostando altrove e andando oltre, forse in Spagna, o negli Stati Uniti.
È evidente che presto la crisi psicologica e culturale potrà diventare altrettanto grave di quelle sanitaria ed economica. Lo slogan «state a casa» è una semplificazione che non centra il bersaglio e che si carica di una certa ipocrisia, dato che il punto è evitare i contatti non importa dove, invece continuano fitti e con insufficienti protezioni negli ospedali, nei luoghi di lavoro e nei supermercati. Per me e per chi ha fatto del rapporto con gli spazi aperti della natura una scelta di vita, l’espressione «state a casa» assume un significato diverso da quello corrente, dato che in nessun luogo mi sono sentito a casa come quando ho passato lunghi periodi nella natura disabitata. Percepisco l’edificio dove abito come un sito provvisorio, di passaggio, dove trascorro tempi carichi di nostalgia per la mia Itaca selvatica e ubiquitaria.
Conservare la salute fisica e mentale in questo piccolo spazio chiuso e lontano dalla radici è indispensabile, perché a quell’Itaca dovremo saper tornare. Rielaboro lo spazio dell’edificio pensandolo non come la mia casa, ma come labirinto in cui mi imbatto e dove occorre inventare un tortuoso percorso senza sapere dove sbucherò. Individuo le scale interne come miniatura della montagna: dalla cantina al piano superiore ci sono 6 metri di dislivello.
Sperimento le prime serie di saliscendi come riscaldamento prima della ginnastica, ma poi comincio a partire per vere escursioni quotidiane. 50 saliscendi i primi giorni, che valgono 300 metri di dislivello, poi 400, quindi 600. Salire e scendere per 100 volte dalla cantina al primo e ultimo piano pare assurdo, ma è così che si carica un’energia mentale che non si potrà dimenticare. È un esercizio che faccio in scarponi – danno un passo più saldo e meno brusco delle scarpe leggere – cercando il senso del continuo sprofondare sotto terra e riemergere verso il cielo. Nell’oscurità della cantina cammino su gradini di pietra; nello spazio chiuso e ombroso io sembro ingombrante, unico elemento che si muove, in un certo senso protagonista in quella cella in cui scompare il resto del mondo; penso all’umanità arcaica, alla ricerca universale del contatto con gli spiriti del regno sotterraneo che spingeva i nostri antenati nel silenzio delle grotte; e agli Inuit dell’Artico, che sottoterra immaginavano il loro paradiso. Al piano terra lascio la pietra e trovo il legno della scala superiore: qui cominciano gli alberi, coloro che trasformano la luce del cielo in materia vivente. È anche la superficie dove passiamo molto tempo, il mondo di mezzo, insufficiente a garantirci le relazioni che cerchiamo, che hanno sorgenti nel profondo e nell’alto. Qui ogni volta scorgo Giovanna al tavolo che lavora in smart-working e il cagnolino La"