Un giro del mondo a piedi: seconda parte, dal Perù al Cile

Di Nicolò Guarrera.

Lima è conosciuta come la città dei tre re perché venne fondata dagli Spagnoli nel mese di gennaio, quello in cui, tradizionalmente, arrivarono i Magi alla culla del Bambino: i tre re, appunto. Ma ha anche un secondo soprannome: Lima la grigia, dal colore del suo cielo per gran parte dell’anno. Un mix di inquinamento e condizioni atmosferiche fanno si che si formi una cappa di nubi sopra la capitale, coprendo democraticamente sia i grattacieli che le case più semplici.

Per me, invece, Lima è la città dell’incontro con la mia famiglia, per la prima volta dopo più di un anno dalla mia partenza. Avevamo pensato di incontrarci in Spagna, ma a causa del covid il piano era saltato. Appoggio Ezio, il passeggino con il quale cammino, e andiamo a scoprire assieme le meraviglie del Perù, dimenticando per qualche settimana le fatiche del cammino e le scomodità che ho scelto. Una volta tornati alla capitale ci salutiamo e loro rientrano in Italia. Nonostante la voglia di ripartire sia grande, rimango bloccato a Lima fino a metà novembre, a causa di una reazione allergica spropositata a un cerotto - il ginocchio sinistro mi si gonfia come un melone, impedendomi qualsiasi movimento. Aspetto pazientemente che le medicine facciano effetto ma come spesso accade quando sono fermo per più giorni, arriva quel senso di necessità che vuole riportarmi sulla strada. Finalmente, il 9 novembre, riparto in direzione sud, prendendo ancora una volta il corso dell’immensa Panamericana.

Redazione CdC
6 marzo 2022

Cippo 1324 km, vicino al confine con il Cile

È passato più di un anno da quando sono partito. Sono andato a piedi da casa, Vicenza, fino alla Spagna, a toccare l’oceano. Poi mi sono imbarcato su un catamarano e l’ho attraversato, approdando a Panama e congiungendo Atlantico e Pacifico camminando verso il tramonto. Infine Quito, Ecuador, sette mesi verso sud fino al confine peruviano e la sua capitale, davanti a me un altro passo di questo sogno: Santiago del Cile. Mi chiamo Nico e ad agosto 2020 sono partito per realizzare il mio sogno: fare il giro del mondo a piedi. Perché proprio a piedi? Quando si viaggia si cerca qualcosa che normalmente non riusciamo ad afferrare, un elemento che sfugge alla quotidianità e che per questo diventa tanto prezioso quando lo troviamo. Lentezza, se penso a qualcosa che manca nella vita di tutti i giorni è: lentezza. È la chiave per accedere a un contatto speciale con luoghi e persone, è la qualità che permette di costruire storie ed esperienze che un giorno si chiameranno ricordi. Camminare è il modo più naturale per spostarsi da un luogo all’altro, si avanza ascoltando il ritmo del corpo, seguendo quello del giorno: perché non avviarsi così, alla scoperta del nostro pianeta?

I primi giorni dopo Lima sono inaspettatamente difficili. Il cielo continua a essere grigio anche a un centinaio di km da Lima, spegnendo l’euforia della ripartenza. Inoltre faccio una fatica incredibile a dormire, sia nei letti degli ostelli che in tenda e tornare alle docce fredde dopo un mese di comodità è… Una doccia fredda! Non posso farci niente, lamentarsi porterebbe via energie e non ne ho da perdere. So che si tratta di riabituarsi, quindi stringo i denti e vado avanti, aiutandomi con delle compresse di valeriana per facilitare il sonno.

La prima settimana si trascina con una lentezza esasperante ma finalmente le nuvole si disperdono e il cammino brilla di nuova luce. Faccio una piccola deviazione dalla Panamericana per un posto che mi ero segnato mesi prima, la sconosciuta Chincha. In queste zone vive una delle poche comunità afroamericane del Perù e hanno un’usanza particolare, che da buon vicentino ho tutta la curiosità di provare. Qualche idea? Beh ragazzi, a Chincha si mangiano… I gatti! Vengono preparati a luglio, in occasione della sagra di paese, ma mi avevano detto fosse possibile trovarli anche durante il resto dell’anno. Mi informo chiedendo in giro, ma ricevo sempre un due di picche. Anzi, vengo a sapere che la festa è stato abolita nel 2017 proprio a causa della natura del suo piatto forte e che per trovarlo bisogna imboscarsi per la campagna, avere fortuna e farsi invitare da una famiglia proprio al momento giusto. Nei comedores, i ristorantini di strada, non c’è speranza. Soppeso l’eventualità di fermarmi e mettermi alla ricerca, ma non sono così interessato da sacrificare qualche giorno per un gatto al sugo. Anche perché, a dirla tutta, c’è qualcosa di ben più interessante a due giorni di cammino: la cittadina di Pisco.

Una precisazione è doverosa: Pisco, cittadina e regione, sono famose per la produzione di vino e dell’omonima bevanda, il Pisco, liquore nazionale del Perù. È una sorta di grappa ottenuta dal vino bollito e la sua paternità è stata a lungo contesa con il Cile, al quale è stata legalmente vinta la denominazione d’origine. Qui è anche possibile visitare alcune bodegas che lo producono, così faccio un salto a la Bodega Tacama, una delle più antiche d’America. Una guida mi conduce attraverso le botti fino alla sala degustazione e mi sembra quasi di essere tornato a casa, tra le immense botti di rovere della Distilleria Dalla Vecchia e il forte profumo di grappa che si respira in tutto il salone.

Come dicevo, qui si produce anche il vino, che tuttavia è di una dolcezza allucinante, quasi pastosa. Dopo un paio di bicchieri la gola comincia a grattare per i troppi zuccheri: più che vino, sembra una melassa. Una volta giunto a Pisco comincio a gironzolare tra la via principale e la plaza de armas, trovando un 70enne che mi conduce al piccolo vitigno di un suo amico. Nonostante siano appena le dieci del mattino i compari si danno da fare e fanno comparire un paio di bicchieri che vengono riempiti ad ogni piè sospinto. Al quarto assaggio, uno dei due se ne esce con una domanda retorica: “Hai mai assaggiato il Sole&Luna?” Ovvio che no, sentiamo di che si tratta. Il tipo passa subito all’azione e versa un dito di Pisco nel bicchiere. Il Pisco è trasparente - questo è il sole. Poi ci aggiunge del vino rosso, la luna, cantandone la dolcezza che sa di femmina. Non sono ancora le undici.

Con la scusa che a Pisco pueblo c’è poco da fare, rimango per ben tre giorni. Ogni tanto capita che i posti in cui arrivi abbiano un’aria familiare; allora mi fermo e assaporo la sensazione di casa con la lentezza che questo cammino mi sta insegnando. Poco più avanti sorge Paracas, cittadina ancora più piccola ma dentro i grossi giri del turismo per le isole Ballestas, zona protetta famosa per il guano, un fertilizzante naturale. Il tour non è niente di che, ma la riserva alle sue spalle è un affascinante assaggio del deserto in cui sto per incamminarmi. In quei giorni sono ospite di Samuel, istruttore di kyte che mi offre un giro sul suo parapendio, una vecchia gloria reduce da competizioni nelle valli andine. Che faccio, gli dico di no? Il pomeriggio stesso stiamo volando sopra la scogliera del parco naturale, la vista è stupenda sopra gli ocra delle dune di sabbia che si tuffano nell’oceano biancheggiante. La sera ci raggiunge Gal, una ragazza israeliana che come me usa couchsurfing per entrare in contatto con le persone del luogo. Ne nasce uno scambio culinario, io faccio un pesto di mandorle e lei la shakshuka, una sorta di uova al purgatorio in versione mediorientale. E Sam? Lui mangia per due e ringrazia, in volo si trova a suo agio ma tra i fornelli non sa da dove cominciare.

Oasi di Huacachina

Il posto è incantevole e la compagnia piacevole, ma come sempre dopo qualche giorno ho voglia di ripartire. Dopo un centinaio di chilometri arrivo a Ica, meta celebre per le sue dune sahariane e l’oasi di Huacachina, una cartolina verde che sembra fatta apposta per essere fotografata. Quando ero a Pisco avevo visitato un’altra oasi ma non mi aveva entusiasmato un granché, quindi approccio la Huacachina senza grandi aspettative. L’effetto, invece, è stupendo. Ci vado alla sera accompagnato da Alberto, ragazzo conosciuto sui social che si è offerto di ospitarmi, e lo spettacolo che ci appare con la luce rossastra del tramonto è un dipinto dai colori densi, vibranti e stupefacenti. Alte colline di sabbia lambiscono con dolcezza lo specchio d’acqua dell’oasi, il blu intenso del cielo si capovolge nel lago e nuvole infiammate scivolano dentro di esso, impossibili a spegnersi. Non avevo mai visto niente del genere. Decido seduta stante che l’indomani sarei venuto qui a passare la notte, campeggiando con la mia tenda. E così è stato. Affido Ezio ad Alberto, poi preparo le provviste per una mezza giornata e raccatto un paio di rami per aiutarmi a salire le dune. Mi inerpico sulle pendenti sabbiose, lo spettacolo è grandioso: il vento soffia forte disegnando motivi longilinei sui versanti esposti, c’è solo sabbia ovunque spazi lo sguardo. L’orizzonte, al fondo, è un cammino senza fine. Qui, mi sento libero.

Torno da Ezio in un profondo stato di armonia e dopo un altro giorno con Alberto e la sua famiglia decido di ripartire. La prossima grande città è l’ultima per centinaia di chilometri, poi la costa desertica. Passo per un minuscolo pueblo, Ocucaje, dove per la prima volta dormo dalla polizia, mi lasciano piantare la tenda dietro la loro stazione perché il commissario (o almeno, il capo del commando) mi ha riconosciuto in una foto su Facebook, scattata giusto quel mattino dal padre di Alberto prima che me ne andassi. La solita fortuna? Nel frattempo giungo all’ultimo centro abitato, Nazca. Faccio un gran rifornimento di viveri e acqua, per la prima volta ne porto più di quindici litri. Ezio è carico come mai prima d’ora, le ruote posteriori molleggiano sotto il peso ma il passeggino è progettato per reggere fino a cinquanta kg, quindi dopo un check up prepartenza sono tranquillo.

Seguono settimane intense sotto il sole estivo. Le stagioni sono al contrario e con dicembre arrivano i mesi più caldi. Anche se sono nel deserto, ogni giorno succede qualcosa. Entro in contatto con diverse persone che si fermano lungo la strada per darmi una bottiglia d’acqua o qualcosa da mangiare; un giorno ricevo persino una bistecca con patatine fritte! La ruvida gentilezza dei Peruviani allevia la monotonia di una dieta pensata per ricostituire le forze più che solleticare il palato. Succede pure che mi blocco per 48 ore ad Atico, un microscopico centro abitato; credo sia stato un mix tra indigestione da cipolle crude e insolazione. Compro dunque un cappello a tese larghe e una gonna per proteggermi meglio dal sole. Si, avete letto bene, una gonna, i pantaloni lunghi mi danno fastidio e considerando che rimango giorni senza lavarmi l’impiastro di sudore che ne verrebbe fuori potrebbe sfogarsi sulla pelle. Meglio tenere la zona arieggiata sotto l’ampio abbraccio di una gonna - che neanche a farlo apposta, è di un fucsia molto appariscente. Rido da solo e una volta recuperate le forze riprendo il cammino.

Tramonto sull’oceano in compagnia di pescatori locali

Un’altra storia che mi rimane impressa avviene al 500esimo giorno dalla partenza. Sono accampato a Playuela Grande, una spiaggia qualche centinaio di metri sotto la Panamericana. Scende la sera, ma proprio all’imbrunire sbucano una decina di pescatori che escono con una piccola barca a remi ed enormi reti a strascico. La scena è concitata, quelli rimasti sulla spiaggia incitano chi è al largo a sfidare le onde gelide, bisogna fare presto perché con il buio gli scogli scompaiono alla vista e il prezzo da pagare diventa troppo alto. Remano come forsennati ma alla fine ci riescono, sono salvi! Tirano le reti a riva in un andirivieni ipnotico, è un gioco di squadra perfetto rodato in generazioni di esperienza. Il bottino vale la fatica, si capisce dalle pacche fraterne che volano sulle spalle: gli uomini hanno catturato 600 kg di pesce che l’indomani venderanno al mercato.

Con il Natale corrono gli ultimi giorni di cammino in Perù. Arrivo a Tacna, città di frontiera, il 27 dicembre. Esattamente sei mesi prima avevo lasciato Guayaquil, in Ecuador, e cominciato la lunga discesa verso sud per arrivare in Perù. Due paia di scarpe e 3400 km dopo, sono qui, a 50 km da Arica, bandiera cilena. Ancora una volta, la fortuna mi arride: il proprietario dell’ostello presso il quale mi fermo rimane colpito dalla mia storia e decide di aiutarmi. Wilmer - così si chiama il mio benefattore - si occuperà di Ezio mentre sistemo gli affari di frontiera. Questa volta voglio passarla in modo pulito, quindi devo risolvere la faccenda del confine ecuadoriano. Dopo un lungo andirivieni tra immigrazione, consolato italiano e una multa salata, sono dall’altra parte. E qui nasce la storia. Mentre io sono passato dal lato cileno, Ezio è rimasto in Perù, troppo ingombrante e costoso portarlo con me. Cerco di farlo arrivare di qua in modo legale, presentandomi alla frontiera doganale con le carte firmate dal console italiano di Arica, ma mentre dal lato cileno tutto fila liscio i Peruviani non ne vogliono sapere. Wilmer, che si trova dall’altra parte della linea, non può attraversarla e riportarmi il carretto. Giochiamo il tutto per tutto: dopo un giro di telefonate, ci diamo appuntamento nel deserto, lungo i binari della vecchia ferrovia. Senza sapere bene cosa stia rischiando, mi butto verso il nulla alla ricerca di una sagoma familiare. La vedo in lontananza avanzare verso di me, tremolante sotto la calura del sole. Wilmer spinge il carretto come un forsennato, ci incontriamo a metà strada ma lui ha troppa fretta: al confine peruviano gli hanno detto che chiuderanno un occhio solo per qualche minuto, deve fare in fretta altrimenti saranno problemi grossi. Ci abbracciamo per l’ultima volta, poi ritorniamo sul nostro cammino prima che qualcuno ci veda. Ma mentre Wilmer riesce a tornare dalla sua parte sano e salvo, io vedo un fuoristrada verde venire verso di me a tutta birra. È la dogana. Mi hanno beccato.

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