I piedi nel piatto

Al Forum di Davos in Svizzera ogni anno si incontrano i potenti della Terra: finanzieri, economisti, grandi industriali. Lo scopo è progettare affari, i loro ovviamente. Nell’occasione del gennaio 2016 viene riferito dagli osservatori presenti che il tema centrale delle discussioni è stato sulle nuove tecnologie: robotica, intelligenza artificiale, nanotecnologie, biotecnologie. I profitti nel prossimo futuro si faranno in questi campi.

Già oggi, rispetto a pochi decenni orsono, la vita di tutti noi è condizionata, e dipendente in ogni suo aspetto, da una tecnica esorbitante, a volte utile, ma spesso fine a se stessa e che di fatto ci complica solo le frenetiche esistenze che conduciamo. Nell’illusione di tenere tutto sotto controllo e di essere sempre connessi con tutti, in realtà ci schiavizziamo e diventiamo appendici di macchine e congegni che, come minimo, ci ipnotizzano, ma il più delle volte ci rimbecilliscono proprio.

Per chiarezza, non penso affatto che dobbiamo rinunciare ai veri e svariati vantaggi che la modernità ci mette a disposizione. Il problema è non diventarne vittime. Il problema è non sacrificare la nostra umanità. Il problema è non vendere al diavolo corpo, visto che a forza di maneggiare il virtuale scordiamo ogni nostra sensorialità, e anima, visto che rincorrendo infiniti stimoli rischiamo di smarrire chi siamo davvero.

29 marzo 2016

I piedi nel piatto.

Dobbiamo svegliarci ora. Dobbiamo affrontare seriamente e collettivamente la questione: vogliamo essere noi a guidare l’uso della tecnologia utile o accettiamo supinamente di essere ottusi consumatori di ogni novità che ci viene proposta all’unico scopo di arricchire i budget delle industrie che dominano e indirizzano il mercato?

Occorre imparare a distinguere fra bisogni subdolamente indotti e quelli nostri ed autentici.

Occorre praticare contromisure, prima che sia troppo tardi, prima di ritrovarci in un fantascientifico mondo in cui libertà, selvaticità ed empatia rimangono vaghi ricordi.

Ho chiaro due campi a cui ancorarmi per non smarrirmi nel caos dell’efficienza e del nuovo a tutti i costi. Il primo è il camminare. Un cammino in cui decido consapevolmente di spegnere tutti i marchingegni tecnologici. Un cammino in cui mi concentro sul corpo e sui sensi, per continuare a sapere che è lì il mio centro, il mio hardware. Un cammino in cui posso meditare sulla mia natura, immerso nella Natura. Il secondo sono i sogni. Non mi posso fidare della parte razionale, che è e sarà sempre di più condizionata da imput sofisticati e ingannevoli di tutti i generi. Il mio software saggio, quello che mi indica le giusta via, quello che mi rammenterà sempre quali sono le mie profonde caratteristiche, quello che mi farà trovare nel gran calderone di proposte i miei sani interessi, è rintracciabile dentro di me, nelle immagini selezionate con cura dal mio inconscio.

Fidarmi di una tecnologia inflazionante che avvantaggia unicamente i pochi padroni del settore?

Mettiamo i piedi nel piatto del problema. Il mio corpo e i miei sogni, questi sono i punti fermi, se voglio rimanere padrone della mia identità. Mettere i piedi nel piatto vuol dire farci delle domande sostanziali. Ma è così indispensabile e scontato che vinca l’intelligenza artificiale invece di quella emotiva? Dobbiamo arrenderci ad un habitat di robot ed altri aggeggi tecnoinutili, che apparentemente alleviano dalle fatiche e, invece, rubano la nostra attenzione dalle uniche cose che contano – corpo e anima, anima e corpo – al solo beneficio di chi ci lucra vendendocele? Possiamo auspicare un onorevole compromesso, cioè usare la tecnologia che ci serve davvero senza abdicare dalla nostra essenza umana. Ma dobbiamo pensarci e stare molto attenti, perché niente è dato e se l’animale uomo sbaglia ottica e agisce male, può anche scomparire da questo pianeta…per manifesta inadeguatezza.

Salviamo la soggettività, con la coscienza che il soggettivo sono io, contro il dominio dell’oggetto, quando l’oggettivo è come gli altri vogliono io sia

Guido Ulula alla Luna