Scrittura di viaggio, scritta in viaggio: contributi di partecipanti

Al rientro del cammino d’autore Scrittura di viaggio, scritta in viaggio condotto da Andrea Bocconi, alcuni partecipanti ci hanno mandato queste loro produzioni, che abbiamo il piacere di condividere con voi!


... Salire, scendere, scivolare su pietre instabili, tra rovi, foglie bagnate, muschio, ruscelli, tronchi segnati di bianco e di rosso, tronchi spezzati, tronchi caduti.

Orizzonte chiuso, bosco, bosco, bosco, valli improvvise, inaspettati panorami, trattori, case, aie con cani pigri, mucche asociali, stradina di larghezza umana e poi... finalmente, laggiù... Casalino.

Sosta meritata e gustata. Acqua fresca.
Nella piazzetta vicino al fontanile non sono la sola ad oziare spudoratamente senza sensi di colpa. Siamo tre.

Ognuno si gusta il suo di riposo ed a tutti pare naturale e da questo siamo uniti. La smania del fare che mi porto dentro QUI trova pace.

Nell’aria solo lo scroscio dell’acqua che sgorga dal fontanile.
“Io vò a pranzo” mi dice il vecchietto alzandosi, quasi scusandosi di rompere quel magico triangolo.

Questo è il mio contributo. Il viaggio con i posti visitati, l’atmosfera che si è creata nel gruppo e la stimolante presenza di Andrea Bocconi è stata una esperienza magica.

Maria Gabriella Cavallari

L’Arno

Siamo nella valle dove l’Arno è un bambino, poi un fanciullo, ed è torrente.
Qui nasce dal ventre di una montagna dal nome grosso : Falterona.
Dalle viscere materne di pietra serena, sgorga da sempre il rigagnolo importante, che più a valle affiora salterino di sassi.
È l’Arno! È l’Arno quel torrente!
Lo dirigono i poggi, quelle enormi penisole di rocce e boschi che emergono da valli profonde.
A guardia del corso gli antichi castelli e i dolci altopiani d’altezza produttivi di grano.
Governano la curva a ritroso del giovane Arno, il rudere di un castello antichissimo ed uno più basso sul poggio di mezzo ed in fondo la Torre di Monte Porciano.
Sono luoghi di esilio e cammini delusi, di poetica antica.
Nelle anse a valle, l’Arno compone spiagge bianche con pozze d’acqua ove il corpo può rinfrescarsi dai sudori dei cammini.
Obbligato dai monti, dopo essere disceso rettilineo, improvviso, curva e ritorna sulla sua strada.
Così bagna Firenze.
Passa sotto il suo Ponte, lambisce gli Uffizi.
I boschi, che fin dalla nascita gli fanno corona, profumano di timo serpillo e di nipitella e si macchiano del giallo stupendo delle ginestre dal profumo dolciastro.
Spuntano sul declivi le macchie degli appezzamenti coltivati a grano e a fieno, pascolano mucche e pecore.
Luoghi di monasteri profondi e di quiete dell’anima.
Di poi a Firenze sarà tutto diverso.

Maurizia Girlando

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Redazione CdC
15 settembre 2015

Foto di Ilaria Faggiano

Salita all’Eremo di Camaldoli.

Intorno all’anno 1000 un giovane solitario con andatura stanca attraversava i Monti del Casentino.
Che magnifico posto isolato! Nessuno, finalmente, nessuno.
Raramente un gregge con pastore e cane e con talvolta al centro la pecora nera; l’unica, quella diversa.
Si era ormai abituato il giovane Romualdo ad essere una pecora nera, diverso dagli altri si era scoperto incompatibile alla violenza e alla regola d’altri.
Camminava nelle foreste degli Appennini.
Veniva da nord e girovagava fra una montagna e l’altra, fra vette arrotondate e valli, montagne, tutte, e luoghi tutti, coperti da boschi fitti che Romualdo chiamava fra sé, foresta.
Dopo un’irta salita giunse verso sera su un altopiano a prato. Un disteso altopiano fra due valli profonde, gonfie di foresta.
Cercava il luogo della sua perfetta solitudine.
Il prato era troppo aperto.
S’incamminò il giorno dopo.
Un’altra irta salita da camminare lentamente fra faggi, olmi, castani, querce e gli arbusti spinosi fra i quali il bastone preparava la strada.
Dopo un breve percorso Romualdo ode il rumore dell’acqua, lo scrosciare dell’acqua. Proseguendo scorge fra il fitto della foresta una cascata che precipita dalle rocce scure; la cascata è impetuosa, spumeggia e forma volute di bolle effimere, oltre si forma un calmo ruscelletto.
Neppure qui è la sua meta.
In questo luogo potrebbero arrivare i pastori, con i cani, ad abbeverare le pecore.
L’acqua è gelata ma bere è sempre un sollievo, chinarsi raccogliere l’acqua nel palmo e bere avidamente, inginocchiato davanti all’acqua corrente.
Aprendosi il cammino con il bastone Romualdo punta verso l’alto.
Poche ore di cammino arriva in vetta. È un altopiano meno esteso di quello di sotto.
Ma il cielo è di azzurro cristallo e le nuvole lo attraversano veloci.
In questo luogo Romualdo costruirà la sua cella foderata di legno.
“Siedi nella tua cella come in Paradiso, scordati il mondo e gettalo dietro le spalle”.

Sono salita anche io su quel monte ma certo con più fatica del giovane Romualdo.
Tagliando per i boschi, in poco più di un’ora, ho raggiunto la vetta raggiante per “avercela fatta”, non solo ad arrivare fin lì ma anche per avere compiuto i cammini dei giorni precedenti, cammini per me ben più impegnativi.
Ma la foresta di Romualdo non c’è più.
Ho camminato fra i secolari e profumati abeti bianchi piantati per secoli dai monaci dell’Eremo di Camaldoli.
Quale arcano della mente può portare un giovane solitario e sensibile a sradicare la foresta per piantare a distanze regolari gli abeti bianchi e solo quelli?
Ora il cammino per l’Eremo è un’abetaia con nessun sottobosco e con tappeto d’aghi di pino.
Profumo di resina, cielo blu di cristallo fra i rami degli abeti più che secolari.
Per quasi dieci secoli i monaci di Camaldoli hanno sradicato la foresta e piantato l’abete bianco modificando completamente la natura del luogo.
Durante l’ascesa, giunti quasi in cima, s’incontra sul cammino uno stagno.
La luce rifratta fra le chiome degli altissimi abeti rivela dal basso il candore degli aghi e nell’insieme ci si potrebbe confondere con una nevicata.
È un effetto momentaneo e sfuggente che luccica qua e là, con la luce radente le acque e la rugiada.
Occorre l’immobilità rilassata per accorgersi di questo caleidoscopio.
L’insieme delle casette dei monaci è riprodotto più volte e da più angolazioni su fotografie e cartoline, sprofondato nella neve che ostruisce l’uscita dalle celle e pesa spessa sui tetti di losa.
È un luogo di candore intravisto e di candore invernale.
Dalla cancellata che separa la clausura è uscito un monaco che ha attraversato la porta d’ingresso della chiesa barocca. Sguardo quietissimo ma sofferente, mi è parso.
Serenità per aver lasciato il mondo.
Dolore per un modo estremo di sopravvivenza.
Non è facile sedere nella propria cella in perfetta solitudine e lasciarsi il mondo alle spalle.
A fianco delle semplici celle di solitudine, si erge un’opulenta Chiesa barocca.
Conosciamo tutti la storia delle indicibili sofferenze costate per la costruzione di queste chiese, dalla depredazione del Nuovo Mondo, alle sofferenze di chi veniva obbligato in convento.
Le campane suonano a distesa, il cielo è azzurro di cristallo e le nuvole lo attraversano veloci.
Preferisco pensare a Romualdo e immaginarlo per come dipinto nel grosso quadro dell‘Aula Capitolare, dall’artista divisionista Augusto Mussini: la foresta è un tripudio di rosso di giallo e di tonalità del verde e si confonde con il blu oltremare del cielo e con le stelle delle notte e Romualdo vola felice e radioso.

Maurizia Girlando

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