Viaggiando tra onde, sentieri e sentimenti

Racconto al ritorno di un VelaTrek

In treno, verso casa, e l’impellente bisogno di scrivere di loro, di noi, del nostro viaggio insieme.

Quel bisogno che prende qualcuno quando vuol fermare qualcun altro, per non farlo andare via, per non perderlo. Immaginare fili di seta sottili che legano vite, storie, sorrisi, sudore, che percorrono spazi liberi senza mai aggrovigliarsi o lacerarsi per troppa tensione. S’adombra il viso e il sentimentalismo inviso s’appropria del palcoscenico. Smetto di tessere fili di seta, taccio con la mente, il silenzio purifica la circostanza e, intanto, sto viaggiando verso casa. Sono trascorsi tre giorni, i luoghi familiari, le abitudini quotidiane, gli amici, tutto il conosciuto che rassicura, consentono un nuovo approccio più leggero e gioioso, senza tristezza o rimpianti; l’equidistanza ritrovata, per godere al meglio di quelli che adesso sono passato e ricordi. Come quando vai in vacanza nella casa di campagna, spalancandone le finestre, una luce di immagini, di colori e rumori mi circonda affabilmente, riportandomi in fretta, e stavolta senza dolore, a noi, alle migliaia di istanti vissuti insieme racchiusi in una “normale” settimana di velatrek.

Redazione CdC
9 agosto 2013

Caspita quanta vita m’appare e m’inebria, devo mettere ordine, iniziare dal principio e sdraiarmi comodamente sulla poltrona per assaporare. Il principio! faccio appena in tempo a pensarlo che come d’incanto m’appare il cappello del capo (Claudio, nonché skipper, guidatrek, insegnante, amico, narratore e ascoltatore paziente). Ma che inizio è, vedermi davanti un cappello di paglia, un borsalino sopravissuto al giro dell’Africa? Tutto ha un senso, e il senso di questa storia inizia dall’avvistamento di quel cappello a Rio Marina, in mezzo al frastuono dei traghetti e dei turisti lanciati alla conquista dell’isola come bisonti in corsa nelle praterie messicane. Individuato attraverso il cappello il nostro Indiana Jones, a reggerlo intravvedo il volto di un bambino con la barba. Dicono che gli occhi in un volto rappresentano la finestra dell’anima, e quando li guardi veramente puoi cogliere verità che solo le smorfie possono nascondere. Il nostro capo mi appare con gli occhi di un bambino, grandi, languidi, malinconici, di quella malinconia senza confini e senza risposte. L’attenzione si sposta quasi immediatamente ed inevitabilmente ai compagni di viaggio che, nel frattempo si erano radunati attorno a lui. Saluti convenzionali, adocchiatine fugaci, prime sommarie valutazioni, scommesse con sé stessi sull’umoralità dell’una piuttosto che dell’altra. Ok! cambusa pronta, la barca pure, si parte! Via dall’ordinario! Speranza di tutti, credo, era una vacanza all’insegna del contatto con la natura, nel modo più rispettoso e silenzioso possibile. Presi da importanti incombenze: sistemare la spesa e i bagagli, preparare cena e navigare, alla fine, però, ci troviamo gli uni di fronte agli altri, attorno al tavolo apparecchiato con la tovaglia della mamma del capo. Momento cruciale per il primo reale studio delle persone e della situazione. Fortuna che c’era anche il cibo che è servito a rilassarci e, inevitabilmente anche ad unirci. S’instaura da quel momento e si mantiene per tutta la durata del viaggio quello che viene definito l’equilibrio formale, quello che appare a tutti e che può essere anche l’unico percepito da persone con scarsa sensibilità e senso di osservazione. Tutti, o quasi ci diamo da fare, tutti condividono con gli altri, tutti accettano i ruoli che vengono assegnati, tutti parlano con tutti, del più e del meno inizialmente, dell’organizzazione in barca. Si sente che tutti sappiamo e ci siamo preparati a rinunciare a tante cose, privacy compresa, e che i rapporti in spazi piccoli come quello della barca e in condizioni a volte non favorevoli possono diventare difficili se non addirittura conflittuali. Un detto popolare dice che se un rapporto d’amicizia resiste ad un viaggio in barca, allora si tratta di vera amicizia. Noi siamo stati attenti, ingessati, intenti a conoscere gli altri e ad essere poco visibili, in attesa d’inquadrare bene la situazione e la posizione che nell’ambito di quella noi potevamo ricoprire, senza invadere e senza scomparire. Il capo invece si muoveva con naturalezza, sistemava le sue carte, si occupava della navigazione, quasi incurante e dimentico di noi, ma non era così; ho imparato poi che non perdeva mai di vista né la barca, né le persone, né pensate un po’, la cambusa. E quando tutti liberamente facevamo il bagno nelle limpide acque di “meduse”, lui che si concedeva pure le sue gitarelle fuori porta, non mancava mai di controllarci tirando fuori la testa dall’acqua (in quei casi senza cappello) o osservandoci da sott’acqua dove intratteneva brevi conversazioni con le occhiate, che lo ringraziavano per la gran quantità di cibo loro fornito. Credo che in più occasioni quei movimenti lenti e noncuranti del capo, per chi come me aveva l’ansia del neofita, siano stati interpretati come un rassicurante e protettivo cullio materno. Lentamente cominciava a trascorrere il tempo, e i giorni e le notti, eravamo senza orologi, il capo segnava il tempo delle attività. Comparivano i primi gruppetti di persone, due o tre che si parlavano, si raccontavano, si scambiavano oggetti. Ad un certo punto, più o meno tutti avevano parlato con tutti, ci eravamo conosciuti anagraficamente, ricordavamo i nostri nomi, conoscevamo i nostri luoghi di provenienza, e quale ruolo rivestiamo nella società dalla quale eravamo momentaneamente fuggiti. Il rilassamento di tutti portava al divertimento, le battute, le risate e i racconti di storie, la condivisione di pezzi di vita; la convinzione comune di trovarsi con brave persone, come ci reputiamo essere ognuno di noi. Ma non procede così fino alla fine, non siamo mica la barca del “Mulino bianco”! Le vicende e le condizioni del viaggio (“quella non sa cucinare” “ chi ha usato acqua dolce dei serbatoi per docciarsi?” “quello non collabora in quasi niente” “ ma perché questa si sente perfetta e deve dare lezioni a tutti?”) ci costringono a venire fuori un po’ di più, a presentarci finalmente per quello che siamo: persone dotate di buone qualità ma anche di difetti, dediti all’altruismo di maniera ma più naturalmente egocentrici. Insomma, semplicemente siamo persone diverse l’una dall’altra, con vissuti e quindi caratteristiche diverse; ma tali nostre diversità, a tutta prima, anziché divenire occasione per ampliare le nostre conoscenze, per accogliere, integrare e unire, scadono, come sempre, nella dualità, nel rifiuto e la divisione, inibendo l’incontro autentico e l’integrazione delle realtà personali nell’unica realtà del movimento della Vita! Malumori nascono e si dissolvono nel sudore che espelliamo durante le escursioni, piccoli pettegolezzi formano nuvole spazzate via dal vento che accompagna le nostre scorribande in mare. E la situazione di viaggio non consentiva di scegliere di andare via, di lasciare la compagnia. Tutti sempre insieme, in barca e in terra, in compagnia dei nostri compagni e dei nostri pregiudizi su di loro, sorti dall’osservazione di un loro modo di essere. E qui accade il miracolo, che miracolo non è, bensì la naturale evoluzione delle relazioni umane, quando le persone hanno sensibilità e buon senso. Siamo stati costretti a stare con la compagna già “etichettata” e mentre ci stavamo insieme ci accorgevamo che lei non era solo quell’etichetta, ma molto di più e anche molto di meglio di quel che credavamo. Abbiamo scoperto di lei tante sfumature del suo modo di essere, e finalmente l’abbiamo accettata, così com’è, nella sua totalità fatta di luce e zone d’ombra, fatta di slanci sinceri e piccoli atti egoistici. Siamo stati bravi, maturi, l’autocontrollo e per alcuni anche la personale introspezione ci hanno consentito di non materializzare conflitti, che hanno giaciuto in fondo al nostro animo fino a che li abbiamo risolti, noi stessi, senza coinvolgere nessun’altro se non la nostra mente e il nostro saggio cuore. Mi viene sempre in mente in occasioni del genere un aforisma buddista che un maestro tibetano m’insegnò vent’anni fa. Allora non ne compresi molto il senso, ma negli anni, sperimentandone la verità ho realizzato attraverso esso tanti insegnamenti di vita, ancor prima che spirituali. Esso recita così: “Ama il tuo amico di oggi perché sarà il tuo nemico di domani, e ama il tuo nemico di oggi perché sarà il tuo amico di domani”. Ama sempre e comunque e non lasciarti bloccare dai pregiudizi, perché corri il rischio di smarrire il fluire della Vita, fenomeno manifesto al quale sei stato invitato sin dal tuo concepimento. Inevitabilmente accade che quando modifichi la visione personale della realtà fatta di situazioni e persone, sei costretto, ma lo fai di buon grado se il tuo scopo è il miglioramento di te stesso, a rivedere i tuoi paradigmi di riferimento. Accade così che senza alcuno sconcerto o disappunto vedi presentarsi di fronte a te i tuoi lati in ombra, le tue caratteristiche non positive, e, alfine, ringrazi coloro che inavvertitamente ti hanno consentito di fare questo passo in più, in avanti, verso il bene. Si, perché il bene fa bene alle persone! e il bene delle singole persone è il bene di tutto il mondo animato e non!

Cari amici, cari Claudio, Christine, Paola, Catia, Gabriella e Gabriella, Walter, Marco e Sabrina, da questo viaggio non ho riportato indietro solo la bella esperienza del velatrek e le cicatrici di “guerra” (meduse, ematomi, bruciature ecc.) ma anche il BENE, che grazie anche a voi ho potuto vivere e riconfermare fermamente come valore assoluto nella mia attuale esistenza.

Non ci vogliono anni di conoscenza, basta un velatrek con Claudio per potervi dire sinceramente che vi voglio bene tutti!

Ines